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Presente continuo

Aritcolo sul Convegno Presente contnuo

«Presente continuo»

Alfio Petrini

E’ vero che ci sono segni di civiltà rintracciabili nella creazione artistica, nella comunicazione e nella tecnologia. Ma è anche vero che la civiltà dei segni si trasforma in una inciviltà, se non è posta in relazione con l’uomo. Ed è altrettanto certo che lo sviluppo tecnologico e quello scientifico non sempre coincidono con un reale progresso umano. Ai rapporti tra arte e scienza è stata dedicata la rassegna « Presente continuo – I segni della civiltà tra espressione artistica, comunicazione e tecnologie» , organizzato dal Centro di Ricerche Musicali, diretto da Michelangelo Lupone e Laura Bianchini, con la collaborazione del Goethe-Institut Rom. Nel programma - oltre ad essere presenti opere elettroacustiche, elaborazioni musicali per il cinema muto, installazioni sonore d’arte, performance -, figurava il convegno curato da Maria Giovanna Musso e intitolato « Trans_form_azione» . Dove « Trans_ » sta per « trasmigrazioni». «Form_ » per forma. « _Azione» per intervento sul suono, sul corpo, sulla materia.

Trasposizione dei codici, diaspora identitaria, attraversamenti di frontiera e nozione di limite sono stati i temi affrontati nella prima sezione del convegno. Nella seconda sezione è stato affrontato il tema delle forme estetiche applicate alla rappresentazione, alla narrazione e alla comunicazione. Nella terza sezione infine sono stati trattati processi , metodi e criteri che stanno alla base della interazione, della contro-reazione e dell’informazione.

Friedmann Malsch ha tenuto una relazione su « George Brecht: esperienza e forma, metodi di apprendimento », dicendo che il chimico - con una vita parallela dedicata alla pittura sperimentale, alla musica, alla teoria delle forme simbolich - è stato assieme a MacDiarmid il teorico dello “spostamento delle masse terr e stri ” ed ha elaborato « La struttura della nuova estetica»’, articolata in tre parti: « l’unità dell’esperienza, la relatività, il quantum fisico»

Sulla «relatività» è tornato Bertram Muller, dichiarando che la teoria eisteiniana ha « aperto l’uomo verso una consapevolezza quadrimensionale di spazio/tempo» e che « la concezione della quarta dimensione è la chiave di qualsiasi trasformazione della coscienza umana». Applicando il suo ragionamento all’arte della danza, ha rilevato che « la trasformazione delle formule astratte postulate da Eistein in opere d’arte concrete può essere portata a compimento da scienziati e artisti oltremodo coraggiosi» e ha concluso affermando che «la danza è senza dubbio la forma d’arte in grado di unire le diverse qualità dì esperienze temporali nella più concreta forma tempo/spazio. Da questo punto di vista la danza può essere vista come una ricerca fondamentale della transizione dalla prospettiva tridimensionale materialistica ad una coscienza quadrimensionale, libera da vincoli di spazio e di tempo» .

Nicoletta Sala con il suo « viaggio matematico» ha ricordato che gli artisti e gli architetti si sono sempre interesati di matematica, attingendo ai principi delle unità di misura, dei rapporti, delle proporzioni, dell’ordine e dell’armonia. Il ragionamento è andato dalla definizione di simmetria alla rottura della simmetria . Partendo dalla nozione antica - attiva nella cultura greca con la teoria sulle grandezze commensurabili e incommensurabili di Euclide di Alessandria e nella cultura latina con le tesi di Vitruvio che vedeva la simmetria « nell’accordo armonico delle parti dell’opera stessa e nella loro corrispondenza fra ciascuna parte singolarmente presa e la configurazione complessiva» -, la Sala ha ricordato come la nozione moderna , messa a punto da Claude Perrault e utilizzata soprattutto per studiare fenomeni naturali, non trova più fondamento sul « rapporto di ragione» , ma sul « rapporto di uguaglianza» tra parti che « si corrispondono specularmene rispetto ad un asse o un piano». Dopo aver indicato l’importanza delle argomentazioni matematiche applicate alle figure bizantine, ai fregi, ai mosaici, ai rosoni delle chiese, alle piante delle basiliche rinascimentali o di alcune città europee, la Sala ha messo in risalto le implicazioni matematiche presenti nel famoso modulor di Le Corbusier, nelle curve dell’architettura barocca e dell’Art Nouveau, nelle superfici quadratiche di Oscar Niemeyer, Felix Candela, Robert Maillard. E ha concluso, evidenziando come la « rottura della simmetria» proposta da Umberto Boccioni abbia inciso non poco sulla fattura delle opere di Frank O. Gehry, Zaha Hadid, Zvi Hecker, Daniel Libeskind. Nel manifesto « L’architettura futurista» Boccioni scrive che « Si otterrà intanto la distruzione della vecchia ed inutile simmetria per la quale si sacrifica sempre l’utilità. Gli ambienti di un edificio devono dare, come un motore, il massimo rendimento. Per la simmetria invece si concedono luce e spazi ad ambienti che non ne hanno bisogno, se ne sacrificano altri necessarissimi alla vita moderna» . Ne consegue la stretta connessione tra i concetti di utilità e di necessità, che reclamano un rapporto di relazione con l’uomo a due dimensioni, così da rendere - ma questo la Sala non lo dice – la matematica insufficiente a fare una buona architettura o una buona opera d’arte. La relazione con le necessità vitali dell’uomo totale è dunque di fondamentale impoprtanza. La tecnica senza relazione genera nelle architetture fisiche ghirigori formali, anche esteticamente belli, ma che non hanno niente a che vedere con i bisogni materiali e immateriali dell’uomo. E nelle architetture linguistiche della creazione artistica - in particolare dello spettacolo dal vivo -, produce strutture di superficie, forme algide che non amano e non possiedono lo spettatore. Solo l’oggetto che porta con sé il corpo dell’ombra riconosce concretamente il valore duale della natura e della cultura umana, Solo la luce umbratile del sapere e del non-sapere illumina la verità vera, relegando la metafisica della luce a parvenza di verità. In altri termini, l’oggetto è bello, se è utile, concreto, rispondente ai bisogni dell’uomo nella sua interezza.

Sulla matematica che « perde via via significato e s’incontra con i principi dell’ermeneutica» si è impegnato Hans Diebner , facendo riferimento ad una ricerca che vede in connessione la « scienza rappresentativa» e l’« ermeneutica oper ativa». Nell’esaminare il tema della rappresentatività , come strumento che serve a misurare qualità non catturabili e non definibili dalla semiotica e che sembra « contraddire il dettato scientifico della riproducibilità», il relatore ha evidenziato l’importanza della rappresentatività sensoriale dei processi della comunicazione e dell’espressione artistica. Ha inoltre spiegato come il concetto di « ermeneutica operativa» sia scaturita « dal trattamento della scienza rappresentativa nei campi della ricerca sull’intelligenza artificiale», e come il lavoro su algoritmi e interfaccia – tendenti al coinvolgimento del pubblico, ovvero a « rendere pubbliche le cose» - permetterà di avere a disposizione una nuova fonte d’ipotesi.

Sul versante dell’attività musicale Yann Orlaray ha introdotto il tema delle nuove tecnologie informatiche, ricordando che il lavoro del musicista consiste nell’usare « linguaggi di programmazione specializzati che permettono di descrivere algoritmicamente oggetti, strutture o principi di organizzazione arbitrariamente complessi». L’arte è, dunque, arte della programmazione. La programmazione è il cuore dell’atto creativo. Vincent Puig ha aggiunto che prima del ventesimo secolo l'accesso alla musica dipendeva dall’ascolto diretto degli strumenti musicali. L'invenzione del telefono, della radio e del giradischi hanno radicalmente cambiato il nostro rapporto con la musica e hanno profondamente influenzato la creatività di musicisti come Bela Bartok, per esempio. E in tempi recenti l’invenzione della musica elettroacustica ha rappresentato un’altra grande rivoluzione nell’ambito della creazione e della diffusione dei suoni. Ha comportato nuove modalità produttive, creato una nuova offerta, determinato linee di tendenza, imposto l’esame di nuove opportunità di approccio con i corpi sonori, provocando – oltre ai benefici - una serie di problemi. Quali strumenti bisognerà adottare per consentire la comprensione della nuova musica? Com’è cambiata la teoria della percezione dei suoni? Quali cambiamenti sarà necessario apportare nell’ambito della formazione professionale e della diffusione della cultura musicale? Problemi e interrogativi insorgono anche sul versante delle immagini in movimento applicate alle nuove arti visive e alle nuove arti visive intrecciate allo spettacolo dal vivo derivanti da consapevolezze teoriche deficitarie e da pratiche ambigue irrisolte. E’ evidente che le nuove tecnologie sono un mezzo e non un fine . Eppure l’atteggiamento divinatorio assunto da alcuni operatori, opposto e contrario a quello liquidatorio di altri, è ancora largamente diffuso. Così com’è ampia e generalizzata la mancata conoscenza delle differenze sostanziali esistenti tra pratica multimediale – come sommatoria di elementi liguistici lasciati separati e distinti – e pratica intermediale – come interazione di elementi linguistici realizzata nel presupposto dell’unità nella diversità e nella prospettiva del valore aggiunto di natura poetica.. Le nuove divinità tecnologiche non garantiscono modernità e innovazione. L’artista sarà indotto all’errore o al fallimento, se non coniugherà tecnologia e cultura umanistica; se trascurerà il presupposto del rapporto di necessità tra autore e progetto o il fine ultimo del rapporto di relazione tra oggetto e fruitore dell’oggetto. I fatti dimostrano che, senza queste fertilizzazioni, le nuove tecnologie applicate alla creazione artistica dicono il falso. Inducono a perdere contatto con l’uomo totale. Producono forme belle ma vuote di significato, di mistero e di fascinazione. Ne consegue che le immagini o sono orpelli e ornamenti o sono codici espressivi capaci di produrre realtà addizionata: quel valore aggiunto che è elemento primario della creazione artistica.

Dei « Sistemi minimalisti in teatro» ha parlato José Sanchis Sinisterra, facendo riferimento al laboratorio di drammaturgia attoriale realizzato a Barcellona negli anni 80 che teneva conto della teoria generale dei sistemi e utilizzava alcuni modelli formali d’interazione Le unità minime di azione – a ctemi – rappresentavano i punti di partenza per il lavoro d’improvvisazione e l’obiettivo era quello di procedere in modo ripetitivo con il massimo di rigore. I risultati disuguali indussero ii regista spagnolo a considerare gli actemi come un sistema costituito da elementi che non esistevano individualmente, come è ben noto a molti registi. Se variava anche impercettibilmente uno degli elementi (durata, energia, ritmo), cambiava il risultato, cioè il contenuto involontario delle storie minimaliste. Il significato delle «opere» - che non avevano storia, personaggi e sviluppo, ma un carico forte di mistero, di tensione, di humor o di dolore -, era percepito ogni volta in modo diverso da ciascun spettatore e dallo stesso artista/autore che le aveva realizzate. Sinisterra ha poi ricordato come nell’ambito dei successivi approfondimenti e ampliamenti della sperimentazione abbia cercato d’incorporare aspetti della teoria di catastrofi, della geometria frattale, delle scienze della complessità, della neurobiologia, accettando stimoli anche dalla composizione musicale e dai nuclei tematici delle avanguardie, convinto fino in fondo della utilità delle trasmigrazioni da un’area all’altra dello scibile umano.

Sul tema della velocità e della distanza Sinisterra ha fatto forse la riflessione più interessante. « Lo sforzo di navigatori – ha detto , avventurieri, mercanti, eserciti e scienziati è di dimostrare che tutto il mondo è in mano ad un’unica organizzazione capace di fare collassare le distanze» , nel presupposto largamente condiviso di sostituire l’onnipotenza con l’ubiquità. Quando si parla di futurismo si tende ad esaltare il concetto di velocità, ma più della velocità in sé è importante l’annullamento della distanza. Ne consegue che « la velocità non è più da godere…la velocità non è il sentire, ma lo smettere di sentire. Il fine è unificare il mondo in una rete che diventi un punto. Essere in tutti i luoghi, ma esserci allo stesso tempo. Ovviamente è un’utopia, ma è nella direzione di questo sogno che ha lavorato tutta la telefonia dalla sua invenzione. Internet è la realizzazione di una compresenza contemporanea di tutti gli utenti in un luogo che è un punto comune. Il nostro mondo vuole che le presenze siano accessibili e transitabili. Ci siamo abituati a credere a presenze surrogate…presenze defisicizzate. Il prezzo da pagare per una velocità che fa collassate le distanze è di rarefare i corpi. E di sostituirli con qualcosa che ne è un’impronta, un’immagine, un’orma traslata. Il nostro mondo…crede che del corpo si debba e si possa fare a meno, che lo si possa sublimare in internet, al telefono, nelle fotografie» .

Il nostro mondo ha sostituito il piacere con l’edonismo. Si è ammalato di materialismo e razionalismo eccessivi. Si affida ciecamente alle deità tecnologiche. Ha troppa scienza e poco umanesimo, troppo movimento della ragione e poco pensiero del corpo. La maggior parte degli artisti hanno imparato così bene la lezione da non rendersi conto che i processi di astrazione – tanto per fare l’esempio di una pratica molto diffusa nella danza e nel teatrodanza - , producono forme che nascono morte e fanno cadere il sonno sulle palpebre degli spettatori indifesi. E’ evidente che nel sogno dell’ubiquità « c’è un desiderio d’infinito...di sperimentare lo spazio infinito...cioè lo spazio di tutto il mondo. La questione è che questo desiderio deve fare i conti con la sostanza del mondo» , ha detto ancora Sinisterra. «Realizzare l’ubiquità senza passare per la carne del mondo…disconoscere che i luoghi richiedono conoscenza, esperienza, frequentazione, significa avere solo un’illusione della ricchezza e della profondità del mondo». Parole che richiamano alla memoria l’idea di scorporizzazione dell’arte, risalente a Plotino, con la conseguente scorporizzazione dell’anima. E allora? L’unica utopia concreta condivisibile è l’ubiquità come perdita di coscienza, come atto del perdersi per ritrovarsi, come riconoscimento della coesistenza del razionale con il sensibile, come fondamento dell’atto totale della creazione artistica.

Con un’azione performativa che si è mossa tra il dire e il fare, tra il racconto e la rappresentazione, tra la dimensione razionale e la dimensione sensibile (suggerendo così alla convegnistica una nuova modalità organizzativa) il danzatore-biologo Xavier Le Roy ha presentato la sua visione di corpo multicentrico: « corpo contaminato» , determinato dal rapporto « con fattori storici, sociali, culturali e biologici; un corpo che è luogo e tempo che si fa ponte tra diversi pensieri incapace di trasformarsi in astrazione e teoria» . La fabula della performance si puo’ così riassumere. All’inizio, lavorando come biologo, Le Roy si rende conto che il corpo umano non deve essere studiato isolando microsistemi fuori del contesto per analizzarli in sede di laboratorio. Ci vuole più tempo e una diversa metodica di ricerca. Ma l’interesse del direttore della ricerca è legato al dannato principio « pubblicare o perire» , il fine ultimo del progetto è « produrre scienza e non ricerca» , il potere accademico e il potere politico si oppongono di fatto alla vera comprensione del corpo umano. Le Roy abbandona la carriera di ricercatore in biologia molecolare e cominciare ad occuparsi di danza. Il corpo diventa l’espressione pratica della necessità critica legata al nuovo lavoro di ricerca. Il danzatore-coreografo individua le “funzioni e le disfunzioni del corpo” . Lavora sull’opposizione corpo/mente. Scopre che « la mente organizza i tessuti del resto del corpo in un processo vitale, così come le sensazioni e le percezioni organizzano in larga parte il pensiero». Indaga sulle connessioni tra diverse parti del corpo, assumendo un atteggiamento critico rispetto al presente continuo rappresentato dalle pratiche che lo considerano in modo separato, come nella biologia. Un presente continuo che scaturisce dalla disamina del sistema produttivo della danza che «ha creato un format che influisce sulla creazione coreografica, e qualche volta lo determina in modo significativo». Le esperienze cambiano, ma tendono a confondersi, purtroppo. E riaffiorano « le similitudini tra l’organizzazione sociale e politica della scienza e quella della danza». Una testimonianza, quella di Le Roy, che evoca una pratica funesta del presente continuo che conosciamo bene: quello della formazione professionale nello spettacolo dal vivo che procede, come si sa, per materie, separando ciò che invece dovrebbe essere considerato in modo organico e unitario. Un presente continuo – anche se differenziato -, che sembra voler durare all’infinito.