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Editoriale - LA CRITICA CHE NON CRITICA


Rivista on line LIMINATEATRI

EDITORIALE

Liminateatri presenta come editoriale uno scritto di Alfio Petrini, già recentissimamente apparso in altre sedi, ma che la redazione ha ritenuto assolutamente ripubblicabile, nell'auspicio che prosegua il dibattito e lo scambio pubblico di opinioni. La redazione è convinta che le riflessioni di Petrini sul lavoro critico teatrale tocchino alcuni punti e snodi cruciali sul senso del fare critica nel contesto della cultura teatrale e della cultura tout court italiana d'oggi. Il risveglio auspicato dal nostro amico e collega lo riteniamo possibile, sia perché i nuovi “ambienti” digitali (siti, blog, ecc.) suppliscono ampiamente alla mancanza di spazio delle tradizionali sedi della carta stampata, sia perché non mancano energie nuove, profili culturali autentici, già confermati o in via di conferme. Siamo anche consapevoli che il lavoro come “professione” del critico teatrale sia al momento in gran parte da reinventare, prendendo atto che l'arte del teatro è sempre più “minoritaria” e dipendente in gran parte dai contributi finanziari pubblici. Si ritiene, comunque, che l'arte teatrale, quando è arte, possa e debba provocare il pensiero critico e una presa di posizione culturale che può “toccare” in profondità le problematiche del vivere civile, sociale, politico, ideologico, psicologico, spirituale. Si deve anche tener conto che, a differenza di altri campi della critica, a teatro abbiamo di fronte gli artisti (attori) dietro cui c'è l'opera (mentre, mettiamo per un poeta, di fronte abbiamo l'opera e dietro ad essa l'autore poeta). Ciò vuol dire, ancora una volta, che il teatro “è” l'attore, e che lo sguardo critico ha quest'ultimo come referente immediato, ineliminabile, necessario. Preferiamo criticare un brutto spettacolo in cui però agiscono attori “veri”, e non il contrario. L'attore “è” il mondo immaginario, fictional , che “vive” dinanzi al nostro sguardo (quello sensoriale e quello mentale). L'attore dovrebbe sempre saper farci ridere, ma di un riso non consolatorio, ma corrosivo, destrutturante il mondo che conosciamo; oppure farci piangere, per rabbia, per adrenalina che deve decantarsi, per desiderio di reagire, più che per catarsi; deve insomma commuoverci (cum-movère), “muovere” il pensiero, l'emozione , far sprigionare scariche potenti nel nostro corpo-mente. Cosicché il teatro e i critici hanno bisogno assoluto di attori capaci di tutto ciò, attori “credibili”, “efficaci”, “necessari”: una via fondamentale perché siano tali è che il loro essere attori comprenda contemporaneamente la spinta a lavorare su se stessi (come ci insegnano i Padri del Novecento teatrale), vivendo il teatro come ricerca politica, civile, religiosa, spirituale, esistenziale: l'attore che intraprende tali viaggi, tale scavo, si presenterà a noi come un nodo di relazionalità che tocca tutti gli aspetti determinanti del vivere, dando profondità di campo al nostro stesso sguardo, dalla superficie al fondo e viceversa. Da loro ci aspettiamo che non siano attori di storie, ma che vivano sulla scena le loro storie d'attori! Ma guai agli attori (e ai registi, autori, scenografi e spettatori) perfettini! Politicamente corretti, come usasi dire! Guai agli attori che vogliono conquistare il pubblico prima che la propria verità intima! Guai agli attori possessori della verità! Guai agli attori ideologizzati e non pronti a partire dalla nuda vita, attraversando anche l'inferno e la barbarie che pur c'è nella vita etica, sociale, politica! Guai agli attori esteti, che non accettano il brutto se esso serve a scardinare mentalità obsolete, chiuse, morte! Viva il teatro vivo! Che non vuole mezze misure, che crea il proprio contesto di vita e di ragione di esistere, piuttosto che calarsi nei contesti pre-definiti! Come afferma Ferdinando Taviani la democrazia culturale dovrebbe dare spazio anche al teatro appartato, minoritario, borderline, che sta ai margini del miserevole sistema delle arti dal vivo! Infine guai ai critici che non sanno riconoscere e incontrare il teatro quando esso è appunto “vivo” , quando riesce a coniugare cultura “alta” e “bassa”, barbarie e civiltà, bello e brutto, farsa e tragedia, guai ai critici che non riconoscono che il teatro è poesia quando ri-fa la vita, rivivificando se stesso!

P.S.

PROPOSTA OPERATIVA:

aspettiamo che gruppi di attori “motivati”, una volta all'anno, gratuitamente, fuori da condizionamenti di contesto e sistema, attuino sulla scena una ricerca umanistica, spinta ai limiti del mistero, visceralmente sinceramente profondamente tale, come cammino libero verso l'esperienza dia-logica, verso il superamento dei miti del razionalismo, del profitto, dello indiscriminatamente globalizzato, della comunicazione virtuale, della competitività, dell'oblio della natura come magistra vitae molto più saggia delle nostre azioni materiali. E aspettiamo critici e studiosi che accompagnino tale azione volontaria e gratuita...

La Redazione

febbraio 2011

La critica che non critica.

di Alfio Petrini

Faccio alcune riflessioni non esaustive sul teatro addormentato nel bosco, non avendo il potere magico di ridestarlo. Sonno della ragione. Sonno del corpo-mente che si fa azione. Sonno del pensiero che si fa sangue e del sangue che si fa pensiero. Il teatro non sfugge a questa condizione, perché è un tassello della grande macchina del paese reale. A questa condizione non sfugge neppure il lavoro critico.

In tempi così difficili la bella addormentata trasmigra, lascia la favola e si annida nella realtà quotidiana della polis che non c’è. Quindi anche nel teatro. Se da verbo non si fa carne, non si fa vissuto, non si fa movimento del pensiero e del desiderio, non si fa presente che ipoteca il futuro, il teatro finisce per generare ripetizione, rinuncia, difesa dello status quo , servitù politica e culturale a beneficio del potente o dell’intoccabile di turno. L’uomo di teatro - ma non solo -, crede di essere furbo o di doversi fare furbo, di essere fortunato o sfortunato secondo i casi, e non si accorge di essere caduto in catalessi. Così la stasi somiglia al movimento, la vita alla morte. Così la cultura lobbistica, la protezione politica, l’inazione, l’eliminazione del conflitto e la subordinazione dell’arte alla politica dettano le regole e producono quel mercato che è dichiarato libero, ma che libero non è. Altro che meritocrazia!

Il sonno è della drammaturgia esangue, sociologica, ideologica e materialistica, sopraffatta dall’informazione, descrittiva, mimetica. Copia e non trasforma. Pompa sentimenti. Tratta il personaggio non come un lessema, ma come un organismo vivente. Pretende di cambiare il mondo. Insegue il male per suggerire il bene, ignorando che nessun uomo è esente dal male perché lo porta con sé. Eh, già, il male sta sempre fuori di noi! I cattivi, gli imbecilli e gli incompetenti sono sempre gli altri. Bellezza estetica e buone intenzioni non salvano il mondo. Buonismo e moralismo sono la negazione dell’arte, della informazione, della produzione di coscienza critica.

Il sonno è la condizione di molta scrittura scenica che non sa entrare nella mente dello spettatore - scuoterlo, provocarlo, indurlo all’attività -, anche per effetto della paura di sbagliare, della precarietà delle fortune improvvisate, delle riforme annunciate a dritta e a manca e mai realizzate. E’ la condizione che attraversa le centinaia di scuole di teatro e le pagine dei manuali impegnati a formare e informare disoccupati che sognano di ‘esprimersi’, alimentando un mercato fittizio che risponde a pratiche seduttive e corrosive, in un momento storico in cui bisognerebbe avere la possibilità d’imparare a disimparare e di formare gli uomini, non gli attori, i registi o i critici. E’ la condizione in cui si trova la critica che non critica, perché non crede più in se stessa, perché si è rinchiusa in asfittici recinti, perché si limita a fare raccontini o a confezionare cronache cultural-mondane. E’ la condizione in cui versa la classe politica, che non ha più etica, che invece di cambiare se stessa, pensa a cambiare i cittadini, dimostrando di essere fuori posto e non dedita al lavoro che dovrebbe fare. Un male grave da cui discendono altri mali.

Siamo in piena barbarie. Ma attenzione a non ricorrere al vezzo dei buoni sentimenti e al vizio del bene che trionfa sul male. L’uno e l’altro sono un rischio per tutti: per i critici, i drammaturghi, i registi e gli attori. Posso andare oltre la barbarie se la comprendo e non la demonizzo, se la studio e non la condanno, se non la rifiuto a priori come “cosa” estranea alla mia persona, ma l’accetto come uno dei mondi possibili che mi appartengono. Quindi per andare oltre la barbarie devo riconoscere di essere barbarico, anche se non ho mai compiuto atti barbarici.

Lo sappiamo, i cattivi sono sempre gli altri, ma il presupposto da porre a fondamento del nostro lavoro è un altro: i barbari siamo noi (non gli altri), uomini immorali non a-morali, consapevoli di un paradosso che scaturisce dalla morale comune: chi scrive sentendosi in odore di santità è considerato progressista, moderno, civile e antibarbaro, mentre chi ammette di avere la cattiveria in corpo è definito antimoderno, reazionario, incivile e barbarico. La differenza tra l’uno e l’altro è sostanziale. Il primo tende a vincere sull’altro, il secondo tende a cambiare se stesso. Dunque, evviva la barbarie. Sono convinto che se mi faccio carico dell’imbarbarimento dilagante posso ipotizzare di uscirne, un giorno, con qualcosa di nuovo, perché solo dalla barbarie posso far nascere un atto concreto di civiltà e, perché no, di bellezza.

La critica non critica per motivi sociali, ai quali ho fatto cenno, ma anche per carenze culturali e tecniche.

Non intendo in questa sede affrontare le questioni di carattere tecnico - legate al sapere e al non-sapere -, anche se credo che esistano e che interessino non solo la giovane critica, ma anche quella che avrebbe dovuto essere alternativa ai ‘baroni’. E’ un’impresa ardua destrutturare uno spettacolo e per farlo in modo originale è necessario andare al di là dei cliché della tradizione immobile: occorrono conoscenze e abilità assai complesse, meglio se suffragate da esperienze consumate accanto ai maestri riconosciuti del fare teatro.

Per fortuna non esiste un manuale del buon critico. Il lavoro critico non ha canoni da rispettare. Mi sembra tuttavia che abbia ragione Carla Benedetti (citata da Andrea Porcheddu e Roberta Ferraresi nel bel libro Questo fantasma, il critico a teatro ) quando sostiene che bisogna “riaprire le porte al pensiero, porre domande a tutto campo, nominare conflitti e lacerazioni, esplorare, distinguere, approfondire”. Se è vero che la separatezza e l’autoreferenzialità sono un tradimento del lavoro critico, bisogna che la critica si riappropri delle armi che gli sono proprie, ritrovi la funzione sociale nel rendere giustizia al pensiero, lavori sulla memoria e con la memoria per scavare, portare alla luce, cogliere l’invisibile, carpire e capire l’immagine, per destinare al futuro il lavoro fatto sul passato, per separare l’autentico dall’inautentico. Occorre che si liberi dal testo e dallo spettacolo per ritrovare il giudizio critico al testo e allo spettacolo, che sia sereno, non affrettato e legato al velo della superficie. Che si liberi dalle oscillazioni dei gusti e dei disgusti contingenti, dalle predilezioni estetiche e dalla partigianeria ideologica, dalla corsa al mestiere come improvvisazione post-laurea (prima) e dalla metodica della rendicontazione afferente alla cronaca teatrale più che al lavoro critico (dopo). Che si liberi “dalla recensione - scrive Porcheddu - per ritrovare la recensione liberata” da censure e autocensure, riserve mentali e impacciati equilibrismi. Che si liberi, aggiungo, dal vincolo assoluto di oggettività, tenendo in buona considerazione anche il livello della soggettività, se è vero – com’è vero -, che è oggettivamente impossibile raccontare uno spettacolo di teatro. In tal senso penso, paradossalmente, che il miglior modo per fare la critica di uno spettacolo sia di allontanarsene il più possibile con la speranza di poterlo almeno sfiorare. Ripensarlo e rimembrarlo nei dettagli vuol dire proprio lavorare sulla memoria e con la memoria dello spettacolo per destinare al futuro uno scritto al quale riconoscere senza riserve un valore letterario autonomo rispetto al testo e allo spettacolo. Dico un valore letterario autonomo.

La conclusione non può che essere inconcludente. La chiacchiera è assordante, il silenzio è vuoto, la dismisura è catalettica. Tuttavia, se è vero che l’uomo morto nasconde fermenti di vita, quelli concernenti la decomposizione del corpo; se è vero che ogni processo degenerativo implica un processo rigenerativo, è ragionevole pensare che il sonno potrà generare il risveglio del lavoro critico addormentato nel bosco. I fermenti ci sono. Mancano le condizioni di fondo del buongoverno, il credito sociale, alcune premesse necessarie a disegnare nuove prospettive di lavoro e la voglia di sentirsi parte di una “comunità”, quella di cui parla Katia Ippaso.

Chi avrà il coraggio di affrontare lo stato d’assedio e di rimettersi in discussione? Chi avrà il coraggio di entrare nel merito delle strategie ministeriali tese ad affermare che il teatro è lo spettacolo d’intrattenimento? Chi sarà disponibile a fare la radiografia del dirigismo distributivo, dei covacci del potere clientelare, delle vecchie e nuove rendite di posizione? Chi chiuderà la forbice abissale che si è aperta tra interessi legittimi e interessi illegittimi, tra il pensare altro e il vincere sull’ altro ? Quale mondo ha preso il sopravvento dentro di noi? Quale mondo possiamo raccontare, se nutriamo un mondo di morte? Quale energia siamo in grado di bruciare, quale scintilla possiamo generare, se il nostro corpo-mente è apparentemente vivo? Come sarà possibile andare al di là dei propri limiti e delle proprie idee, pensare altro altrove altrimenti , attraversare con paura e con coraggio allo stesso tempo i luoghi di senso? Come sarà possibile generare la follia luminosa di cui ha bisogno il mondo? Come sarà possibile dimenticare questo mondo, quando sarà necessario dimenticarlo, e versare lacrime dopo averlo dimenticato?

Parlare di teatro vuol dire parlare del mondo.

A chi dobbiamo delegare la tutela della nostra immagine e della nostra operatività? A nessuno. Di certo, non alla politica, che insegue - quando va bene -, i bisogni degli uomini, invece di prevenirli. Figuriamoci se può risolverei i problemi di una piccola casta, che appare senza senso in una società votata allo sviluppo che non coincide con il progresso sociale. Nessun principe potrà salvarci. Non c’è bisogno d’interposta persona, tanto meno di maghi o di cavalieri erranti, per ridare concretezza alla nostra utopia. All’orizzonte non vedo un uomo capace di farlo. Anche se ci fosse, non gli delegherei nulla del mio lavoro e della mia vita.

Forse bisognerebbe cominciare dal ‘basso’, dalla ‘base’, come si diceva una volta, dal nostro lavoro quotidiano, con coraggio, con determinazione, con la forza che potrebbe derivare dall’essere parte di una “comunità”. “Non sarebbe bello contribuire a fabbricare un nuovo immaginario, presentandoci l’uno all’altro come comunità?”, si chiede la Ippaso nella sua lettera aperta. Sarebbe bellissimo. A condizione che si prenda atto che la critica subisce sia il danno di una forte regressione sociale e culturale del paese sia lo svantaggio dello stato catalettico in cui giace da molto tempo e che la rende estranea ai problemi del teatro e della comunità nazionale. Nessuno può isolarsi. Nessuno può permettersi di sentirsi migliore degli altri, ma nessuno può concedersi il lusso di considerare intoccabili i “baroni che ci hanno mangiati vivi”. I baroni ci hanno mangiati vivi anche perché ci siamo fatti mangiare vivi. Non ripetiamo l’errore e creiamo un coordinamento dei critici. Dalle domande possiamo, di certo, cominciare o ricominciare. Qualunque perdita è buona per ricominciare daccapo, meno la perdita della parola. A essa sono affidate dignità, sicurezza e integrità. Solo in condizione di non precarietà si può ascoltare la vita. Sogni, sacrifici, deliri, dunque, e impudicizie ci vogliono. Purché siano incontenibili.