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Il Comportamento Alimentare e le Strategie per la Gestione del Peso Corporeo

Il modello sociale di bellezza universalmente riconosciuto fa sì che una corretta gestione del peso corporeo rappresenti, ad oggi, un obbiettivo di moltissime persone che, pur di risolvere il proprio problema, finiscono per imbattersi nelle più stravaganti strategie che risultano essere, oltre che inutili, spesso anche dannose. Per capire come risolvere il problema, è necessario conoscerne la causa scatenante, per ogni problema c’è una soluzione, ma non esiste una soluzione unica a tutti i problemi. Per capire meglio l’origine del problema della gestione del peso, concentriamoci sul comportamento alimentare.

Il comportamento alimentare rappresenta la sintesi di tutte quelle azioni che coinvolgono l’individuo nel suo rapporto con il cibo e con l’alimentazione e, di riflesso, ne condiziona in modo determinante la gestione del peso corporeo.

La regolazione del nostro rapporto con il cibo non è affatto lasciata al caso, al contrario di quanto potrebbe sembrare, ma è severamente controllata, a “livello centrale”, da una complessa rete di interconnessioni nervose che hanno sede all’interno dell’Ipotalamo, una piccola regione posta alla base del cervello. Questa rete neuronale sembra essere una dei responsabili del controllo dell’assunzione di cibo, con il fine ultimo di rispettare il bilancio energetico dell’organismo e quindi il corretto peso corporeo.

Oltre ai segnali neuro-endocrini “interni”, hanno un ruolo fondamentale nella regolazione dell’introito calorico i cosiddetti “segnali periferici” proveneienti dall’apparato gastrointestinale e dal tessuto adiposo.

Sia i segnali “interni” che quelli “esterni” vengono percepiti a livello cosciente come “Fame” e “Sazietà”.

Tuttavia, se osserviamo il comportameto alimentare umano, è evidente come questo non risponda esclusivamente ad esigenze fisiologico-energetiche ma risulta essere determinato anche da una vasta gamma di fattori psicologici e culturali.

Se riflettiamo sul nostro rapporto con il cibo, noteremmo che non assumiamo dei cibi che ci sono emotivamente indifferenti ma, al contrario, sono carichi di divesi significati affettivi, simbolici o sociali.

Il valore simbolico che attribuiamo al cibo e alla nutrizione può interferire, dunque, con il corretto comportamento alimentare, deviandolo dalla sua funzione biologica e connotandolo di significati che vanno ben oltre lo scopo essenziale di mantenere in condizioni ottimali l’organismo.

Ne risulta, infatti, che in molte persone non esista una corrispondenza tra il proprio stato nutrizionale e la sensazione percepita di fame e sazietà.

In sostanza, lo stato bio-fisiologico dell’organismo non viene identificato né riconosciuto, e quindi non è psicologicamene rappresentato come fame o come sazietà. È bene precisare che non si tratta di un difetto organico ma di un’anomalia funzionale.

Questa mancanza di consapevolezza percettivo-cognitiva dei segnali interni oggettivi della fame consegna il soggetto al potere degli stimoli esterni, che avranno un ruolo influente nel determinare l’assunzione di cibo. Di conseguenza, non si riuscirà ad avere alcun controllo su una funzione che non si sa riconoscere.

Cosa accade nella pratica? Dal momento in cui una persona, che presenti un problema con la gestione del peso corporeo, un disturbo alimentare o un cattivo rapporto con il cibo, si reca da un professionista della nutrizione, questa persona porta con se una precisa richiesta terapeutica, ovvero il ripristinare il normale funzionamento del sistema affinché possa conseguentemente riportare il suo peso corporeo nella norma.

Per moltissimi anni si è assistito, e oggi la situazione è anche peggiorata, ad una risposta professionale che trascura le cause di tali comportamenti e si concentra esclusivamente sulle conseguenze degli stessi, ovvero le variazioni di peso.

Si è dato il via, quindi, ad una serie di metodi terapeutici o correttivi aventi come fine ultimo quello di far dimagrire (o ingrassare) il paziente (diete restrittive, farmaci anoressizzanti, diuretici, diete ipercaloriche…) i quali, al di là delle singole variazioni, possiedono tutti una caratteristica comune che è quella di imporre al soggetto uno schema dettato dall’esterno al quale doversi adattare e conformare.

Numerosi studi sull’alimentazione compulsiva hanno consentito di mettere in luce che i soggetti che presentano dei problemi con il cibo hanno delle problematiche tra loro strettamente connesse: da una parte ritroviamo una grossa difficoltà nel riconoscimento della fame mentre dall’altra c’è una situazione di dipendenza dal cibo che viene spesso identificato come il loro amico-nemico capace di recare sollievo momentaneo ma anche di essere portatore di problemi spesso più importanti che vanno poi a rinfonrzare il ciclo comportamentale disfunzionale.

In conseguenza di ciò, il cibo viene utilizzato come risposta a tutta una serie di bisogni del tutto indipendenti dal segnale fisiologico di vuoto nello stomaco.

In tale ottica appare evidente che il meccanismo della dieta, che dovrebbe porsi erroneamente come risolutivo, si mostra qui come l’artefice di un circolo vizioso peggiorativo che allontana ancora di più questi soggetti dalla comprensione dei bisogni e dei segnali che il proprio corpo gli invia.

Costringendo un soggetto, infatti, a mangiare, secondo orari prestabiliti, determinati cibi addirittura programmati con giorni di anticipo, si rinforza nel paziente il senso di estraneità dal proprio corpo.

Che dire poi dei livelli di autostima e di percezione della propria capacità che, come risulta dagli studi, sembra essere in questi soggetti piuttosto carente?

Un meccanismo come quello della dieta induce, infatti, il soggetto a fidarsi sempre meno di se stesso, ad affidare la lettura dei propri bisogni all’esterno, al maggiore competente e se, come è prevedibile, ci saranno degli errori e delle cadute, ancora una volta la persona stessa arriverà a definirsi come colpevole ed incapace.

Se l’elemento di scompenso del sistema alimentare è, come abbiamo affermato, interno al sistema stesso, si capisce come il meccanismo riequilibratore debba quindi essere ritrovato nell’individuo stesso, nella attivazione di meccanismi cognitivi corretti e nell’attribuzione di significati adeguati alla parola cibo. Tutto ciò va ricercato, come già detto, all’interno della persona e non come regola imposta dall’esterno.

Questo significa educare le persone ad ascoltarsi, a riconoscere lo stimolo reale della fame, a distinguerlo dalla cosiddetta “fame psicologica” ed a mangiare tenendo conto di queste sensazioni.

Lo strumento più efficace, capace di far ragiungere questi obbiettivi, sembra essere quello della registrazione e dell’analisi del poprio comportamento alimentare, ovviamente sotto uno stratto controllo da parte del professionista della nutrizione.

Se il nostro modo di alimentarci è divenuto oramai automatico, se abbiamo perduto la capacità di leggere gli stimoli del nostro corpo, il modo più efficace per affrontare il problema è quello dell’auto-osservazione mirata.

Analizzare anche i minimi dettagli del proprio comportamento alimentare significa porre le basi per iniziare un rapporto normale con il cibo. Se si è capaci di dire sì ad un cibo. Sarà poi possibile in seguito dire di no. Dire di no è qualcosa che ci aiuta ad autodefinirci ma anche a dire di sì senza sensi di colpa. Sappiamo, inoltre, che una delle caratteristiche dei disturbi alimentari è quella della perdita di controllo sul cibo o, come nell’anoressia, di un eccessivo controllo sull’intromissione del cibo.

La dieta, in questo senso, non influisce affatto su questa problematica in quanto incide sul numero di calorie e non sulle cause della perdita di controllo. Si può dunque affermare che non si può dimagrire se prima non vengono messe sotto analisi le cause dell’ingrassare ed i motivi della sovralimentazione.

Dr. Alessandro Giovenco