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Giorgione


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GIORGIONE

di Marco Mondi

Per diversi decenni del Quattrocento, a Venezia e nel Territorio della Serenissima la tradizione figurativa, rispetto ad altri centri della penisola, continua a mantenersi legata a forme espressive d'ascendenza gotica, nella veste assunta dal "fiorito". Durante la prima metà del secolo, sono gli stessi artisti toscani a portare in laguna le prime testimonianze dello spirito rinascimentale. In città, infatti, sono chiamati a lavorare Paolo Uccello, Andrea del Castagno, Filippo Lippi e più tardi lavora per Venezia pure il Verrocchio. Artisti veneziani, come ad esempio Jacopo Bellini, soggiornano a Firenze, rinnovando così il loro linguaggio sugli ideali del Rinascimento, ma rimanendo sempre sostanzialmente vincolati, in termini di modernità, come tutta la cultura veneta di quegli anni, ad un lessico figurativo oramai sorpassato. Questa generale situazione di refrattarietà nei confronti delle nuove teorie artistiche dipende, almeno in parte, dalla volontà stessa del governo di San Marco, che ritiene politicamente ed economicamente più vantaggiosa una siffatta presa di posizione, anche in considerazione dei continui e lucrosi rapporti commerciali mantenuti vivi per secoli tanto con l'Oriente quanto col nord d'Europa. Non stupisce, allora, se la spinta decisiva verso il Rinascimento parta, piuttosto che dalla capitale, da una città decisamente più aperta a recepire nuovi stimoli culturali come Padova, sede di un'importante università rinomata in tutta Europa. Ed a Padova, tra il 1446 ed il 1450, è chiamato a lavorare Donatello, uno dei più importanti artisti del primo Rinascimento italiano. Il soggiorno dell'artista nella città del Santo riveste un'importanza storica eccezionale, colta subito dal Mantegna che, istruitosi sulla visione diretta delle sue opere, fa mutare radicalmente, nel volger di pochi anni, la situazione culturale non solo in terra veneta, ma nell'intero settentrione. Sugli esempi del Mantegna, prende avvio la straordinaria avventura artistica di Giovanni Bellini, personalità fondamentale della cultura figurativa veneziana della seconda metà del Quattrocento. Importantissimo, per il pittore veneziano, è l'incontro con l'opera di Antonello da Messina, stabilendosi in città tra il 1474 e il 1475, il quale assume un ruolo d'enorme rilevanza nel diffondere una visione figurativa elaborata sull'intrecciarsi d'influenze fiamminghe e, soprattutto, pierfrancescane, che si concretizzano nei suoi dipinti con altissimi risultati d'equilibrio tra forma e spazio e tra volume e luce. Sugli esempi di Antonello, a partire dall'ottavo decennio, il Bellini sviluppa la propria "religiosità" artistica in composizioni dove la luce, attraverso il colore, crea ricercati effetti di fusione atmosferica e di geometrica e rigorosa tornitura delle forme. Al volger del secolo, Giovanni Bellini, diviene così la personalità artistica di maggior rilievo della città lagunare, dove tuttavia lavorano fervidamente altri pittori dal ruolo non certo marginale, come il fratello stesso di Giovanni, Gentile, o, più ancora, Vittore Carpaccio, impegnato a ridurre la propria visione fantastica della storia in una sorta di leggenda di un presente immaginario. A completare il panorama artistico lagunare a cavallo tra Quattro e Cinquecento, in relazione alla formazione del giovane Giorgione, bisogna considerare, inoltre, i soggiorni di Albrecht Durer (da mettersi in relazione anche alla presenza in città di un importantissimo fondaco quale era quello dei Tedeschi - una sorta di centro commerciale dei mercanti d'oltralpe), avvenuti, il primo, all'età di ventitré anni, tra il 1494 ed il 1495, ed il secondo tra il 1505 ed il 1507. Altre influenze nordiche, giungono a Venezia attraverso le incisioni e attraverso la presenza dei dipinti stessi portati dai viaggi di commercio fatti nelle città dell'Europa settentrionale. Un altro rilevante punto di riferimento per l'arte lagunare di questi anni, è l'influsso della pittura di Leonardo, che giunge di riflesso importata dagli artisti lombardi attivi in città e direttamente durante il brevissimo periodo di permanenza (1500) dopo la fuga da Milano, a seguito della caduta degli Sforza: Leonardo ha quarantasette anni e gode di una fama grandissima, tant'è vero che il governo di San Marco non perde l'occasione per affidargli il progetto di un piano di difese contro la minaccia di un'invasione turca. Infine, forme toscane e dell'Italia centrale possono essere messe in relazione con la prima attività artistica del Giorgione per mezzo di mediazioni emiliane, quali quelle di Francesco Francia e Lorenzo Costa.

Per avere ora un'idea visiva di opere, dalle quali si possono velocemente chiarire alcune caratteristiche formali e compositive recepite da Giorgione agli inizi e durante la sua attività figurativa, andiamo a vedere i seguenti dipinti (che l'artista poté anche non conoscere, ma che aiutano lo stesso a capire quale fu probabilmente l'ambiente artistico in cui si formò e lavorò). Nella chiesa di San Cassiano a Venezia, per tutti i primi decenni del Cinquecento, si conservava ancora la pala con la Madonna in trono col Bambino e Santi (fig. 280), dipinta da Antonello da Messina nel periodo del suo soggiorno veneziano (1474-75): di questa oggi ne esistono solo alcune parti. La ricostruzione della composizione fatta dal Mather nel 1924, mostra la scena sacra ambientata all'interno di un'architettura coperta da una volta a crociera, al di là della quale, dietro una sorta di tendaggio, che racchiude lo spazio sino all'altezza dei braccioli del trono, si apre un ipotetico cielo solcato da nuvole. La successiva, e più attendibile, ricostruzione tentata dal Wilde (1929), mostra la scena ambientata all'interno di un'architettura più complessa, chiusa in alto da una volta, davanti alla quale s'intravede, in parte, la cupola; a chiudere la composizione sullo sfondo, s'erge un alto parapetto, che sovrasta in altezza tutte le figure, compresa quella della Madonna, lasciando libera solo una parte del lunotto delimitato dalla volta. La resa spaziale e di luministica tornitura volumetrica delle figure è chiaramente intuibile dalla visione del particolare della Madonna in trono. Giovanni Bellini, sotto l'influsso di Antonello, dipinge attorno al 1487 la Pala di San Giobbe (fig. 281), oggi conservata alle Gallerie dell'Accademia di Venezia, che è un chiaro esempio di composizione e costruzione spaziale di tipica pala d'altare veneta della fine del Quattrocento e dei primissimi anni del Cinquecento, perlomeno. In questo momento, il Bellini sviluppa la sua concezione di "mito religioso" con una tecnica pittorica sempre più direzionata verso una luminosità atmosferica tutta giocata col colore. Nel nuovo secolo, l'anziano maestro si mostra capace di rinnovare ancora la propria poetica sugli influssi stessi del Giorgione, che nella sua bottega aveva forse avuto i primi insegnamenti. Nella Madonna in trono con Bambino e Santi (fig. 345), dipinta nel 1505 per la chiesa di San Zaccaria, l'architettura mostra solo una timida apertura paesaggistica verticale ai lati estremi, mentre il colore, sfumando in penombre ricchissime e ammorbidendosi in larghe campiture tonali, si aggiorna ad una resa atmosferica più accentuata. Nella Madonna col Bambino benedicente (fig. 346) di Brera, del 1510, l'artista persiste sulla strada del rinnovamento di Giorgione e Tiziano, sentendo però qui il bisogno di separare con una tenda le figure sacre dal paesaggio circostante; mentre nella Donna nuda allo specchio (fig. 347) del Kunsthistorisches Museum di Vienna, dipinta un anno prima di morire, l'anziano maestro presenta un tema di chiara ispirazione giorgionesca. Del fratello di Giovanni, Gentile Bellini, famose sono le grandiose composizioni di vario soggetto ambientate a Venezia, la cui realizzazione, però, si mostra di un livello qualitativo decisamente inferiore rispetto a Giovanni. Gentile fu anche un discreto ritrattista, come appare pure nel Ritratto di Caterina Cornaro (fig. 348) del Szépmuvészeti Muzeum di Budapest. Vittore Carpaccio, pur sempre in modi avvicinabili al Giambellino, dipinge straordinari cicli pittorici come quello delle Storie di Sant'Orsola, eseguito attorno al 1495 (si veda, ad esempio, il particolare del Rimpatrio degli ambasciatori inglesi - fig. 282 -, oggi conservato alle Gallerie dell'Accademia di Venezia), che con ogni probabilità Giorgione ha avuto occasione di ammirare, considerato il gusto carpaccesco di certe composizioni di figure, e delle figure stesse, in alcune sue opere. Di sapore belliniano è pure il Ritratto di donna (fig. 349), oggi al Staatliche Museen di Berlino, di Albrecht Durer, eseguito a Venezia durante il suo secondo soggiorno (1505-1507), la cui configurazione iconografica è alquanto simile ad alcuni volti di Giorgione stesso (si persi a quello della Giuditta, ad esempio), ma assolutamente lontano per quanto riguarda il linguaggio figurativo. L'incisività grafica del grandissimo maestro tedesco appare decisamente più evidente in opere come il Gesù fra i dottori (fig. 350), della collezione Thyssen di Lugano, dipinta nel 1506 con uno spirito legato ad una tradizione ancora fondamentalmente e musicalmente gotica. Giorgione, inoltre, dovette conoscere altre pitture nordiche attraverso la visione diretta di dipinti conservati in città e certamente anche attraverso le stampe: si confronti, ad esempio, il manto della Madonna di Castelfranco con quelli graficamente descritti in incisioni come la Madonna col Bambino (fig. 351) di Martin Schongauer, del 1475-80 circa. L'influenza leonardesca si mostra evidente nella risoluzione tonale dello sfumato adottata nei dipinti del Giorgione, che il pittore di Castelfranco può aver recepito anche indipendentemente dalla visione diretta delle opere del maestro, attraverso la conoscenza dei lavori di pittori lombardi attivi in città; tuttavia lo sfumato di Leonardo, che avvolge col "fenomeno" atmosfera paesaggio e figure (come nella Gioconda - fig. 288), è risolto dal nostro con tutt'altra importanza cromatica. L'impostazione iconografica della Pala di Castelfranco, infine, mostra delle affinità compositive con opere degli emiliani Francesco Francia e Lorenzo Costa (si veda il confronto con la Madonna e Santi della Pinacoteca di Bologna del primo, e con la Madonna e Santi di San Petronio o, più ancora, con il San Petronio e Santi dello stesso museo bolognese, del secondo - fig. 352).

Arriviamo ora direttamente a trattare il "problema" Giorgione (fig. 352bis). Su questo artista si sa pochissimo e pochissime sono le fonti contemporanee che ci parlano dell'artista, al punto che la stessa origine castelfranchese è stata, e talvolta lo è ancora, messa in dubbio. Aperto e vivacissimo è il dibattito tanto sull'attribuzione delle opere quanto sulla datazione delle stesse. Pochissime sono quelle rintracciate sulle indicazioni fornite dalle fonti antiche; la principale, e fondamentale, delle quali è costituita dal libriccino di appunti presi nelle collezioni veneziane, tra il 1525 ed il 1543, dal patrizio Marcantonio Michiel, che recensisce quattordici dipinti del maestro, tra opere certe e meno (il nome di Giorgione ricorre diciotto volte). Ma il libriccino fu trovato solo nell'Ottocento dall'abate Morelli; fino a quel giorno la critica giorgionesca, per più secoli, ha viaggiato ai margini del mito. Dei dipinti là menzionati, solo un ristretto numero è stato rintracciato dalla critica moderna, generalmente però accolto con parere unanime. Il Vasari, nella prima edizione delle sue Vite (1550), composta sulle indicazioni raccolte durante il suo soggiorno a Venezia del 1541-42, ne cita sei e appena il doppio nella seconda edizione (1568): quasi tutti sono introvabili o male attribuiti. Dopo quasi cent'anni (1648) il Ridolfi, ne' Le meraviglie dell'arte , fa un elenco di sessantacinque pitture (tra le quali, per la prima volta, si cita la Pala di Castelfranco), quasi tutte oggi irreperibili, mentre altre sono state riconosciute di altra mano (tra esse vi sono persino dei falsi fatti dall'abile Pietro Vecchia): è evidente che a quella data Giorgione era già entrato nel mito. Gli storiografi successivi proseguono sostanzialmente per la via del Ridolfi, almeno fino a giungere ai rigorosi ed attenti studi del Cavalcaselle (1871) e a quelli "scientifici" del Morelli (1880-91), ma il catalogo di Giorgione esce ridotto a meno di una ventina di opere. Si inizia così un'altalena di attribuzioni che giunge talvolta a superare il centinaio di opere, talaltra (con i due volumi dell'Hourticq del 1919-30) a ridimensionarle a sole sei. Oggi, grazie ad un maggior rigore storico-artistico e scientifico, almeno per i dipinti (per i disegni la situazione appare ancora più controversa), il catalogo dell'attività artistica del Giorgione viene generalmente riconosciuto in un ventaglio che va dalle venti alle trenta opere, solo un ristretto numero delle quali messo in seria discussione; cinquanta-sessanta opere, un tempo date al maestro, sono invece oggetto delle più vive diatribe: un numero ristrettissimo di queste riferibili con prudenza al maestro, le altre generalmente date ad altri autori sulla base di ipotesi alquanto solide.

Giorgione nasce probabilmente a Castelfranco Veneto intorno al 1577-78. E' il Vasari a dircelo: nelle Vite del 1550, lo fa nascere nel 1477 e morire di peste a Venezia nel 1511, all'età di trentaquattro anni; nella seconda edizione del 1568 mantiene invariati gli anni e la data di morte, mentre la data di nascita è corretta al 1578. La duchessa Isabella d'Este, in una lettera scritta da Mantova il 25 ottobre 1510, ci dà indirettamente la prima indicazione precisa sulla data di morte: , ne parla, cioè, come già morto a quella data. La conferma ci viene dalla lettera di risposta alla duchessa, scritta da Taddeo Albano in data 7 novembre 1510: . Nelle due lettere, Giorgione è chiamato Zorzo da (o de ) Castelfrancho , questo a testimonianza del suo luogo d'origine. D'altra parte, pure in altri documenti che precedono il 1510, al nome dell'artista è fatto seguire il nome di Castelfranco: così appare nei documenti del 1507 relativi ad un'opera per Palazzo Ducale, dov'è chiamato Maistro Zorzi da Chastel franco, e così è chiamato anche nei documenti del 1508 relativi agli affreschi del Fondaco dei Tedeschi. Null'altro di certo si sa a riguardo della sua nascita e della sua famiglia, argomenti pure questi ricchi, sin dal Ridolfi, delle più disparate ipotesi, talvolta alquanto suggestive. Certo è che, per un artista nato in un paesotto di provincia quale è Castelfranco, i contatti o i "legami" con personalità importanti del luogo devono, senza ombra di dubbio, esserci stati. E' la sua stessa pittura a darcene conferma: senza un apprendistato giovanile a Venezia, opere di tale livello qualitativo e novità rivoluzionarie (a partire dalla stessa Pala di Castelfranco - tra i suoi primi lavori sicuri, riconosciuta tale da tutta la critica, qualunque sia la sua vera data d'esecuzione), non sarebbero spiegabili altrimenti, nemmeno per un giovane dotato di straordinarie capacità artistiche quale egli era. Ma non è solo questo. Pressoché nulla (o svelato, sovente ipoteticamente, solo in parte) è rimasto dei significati complessi, reconditi ed ermetici dei suoi soggetti, che sfuggivano, e il Vasari lo ammette, ai contemporanei stessi. Essi, però, sono la prova tangibile del livello culturale dell'artista, ricordato non a caso dalle fonti (tanto le più antiche, quanto le successive) come un giovane dalle fattezze affascinanti ed imponenti (da cui la distorsione del nome in Zorzon ), amante della musica e delle belle maniere, una figura dalla grande vivacità spirituale, immersa profondamente nel tessuto più vivo della giovane società colta ed elegante del suo tempo, nonché, quel che più a noi interessa, innovatore della pittura veneziana. Se anche fosse stato quale lo vuole il Vasari ( ), o quale lo vuole il Ridolfi (nato ; ma il Ridolfi gli ha anche già dato un cognome, Barbarella, che è probabilmente un'invenzione seicentesca - a meno che, dietro questa rivendicazione fatta da parte di un'importante famiglia stabilitasi a Castelfranco da non molto tempo, non possa essere visto un lontano, se non lontanissimo, indiretto legame di parentela con la famiglia dell'artista, che non giustifica in ogni caso l'avergli affibbiato il cognome), rimane comunque un giovane che ha avuto la possibilità, per appoggio di qualcuno o per nascita, di educarsi in un ambiente sociale estremamente colto e raffinato. Le fonti, infatti, lo ricordano a Venezia alla bottega del Bellini, (tuttavia Venezia, allora, era per gran parte "belliniana") per quel che riguarda il suo apprendistato pittorico, e fattosi da sé , come afferma il Vasari. Dietro a quel da sé si nasconde forse proprio l'ambiente colto, di ascendenza culturale più neoplatonica che aristotelica, degli amici, che formano poi anche gran parte della sua committenza. Dalle su nominate documentazioni, da pochissime altre fonti antiche e dalle sue stesse opere, possono essere desunte altre importantissime considerazioni proprio sulla committenza. L'artista ha incarichi ufficiali da parte dello Stato veneziano (Fondaco dei Tedeschi, ad esempio), ma la maggior parte delle sue opere conosciute sono state eseguite per una cerchia ristretta e selezionata di conoscenti che, come più d'uno ha notato, sono quasi tutti giovani: Girolamo Marcello, che tra gli altri quadri di Giorgione ha in casa la Venere, è suo coetaneo; Taddeo Contarini, proprietario dei Tre Filosofi , è addirittura più giovane, come più giovane è anche Marcantonio Michiel; Alvise Soranzo, che fa affrescare il palazzo di San Polo, è un giovane che viene da Castelfranco, e così via. Non è quindi improbabile che questa cerchia di giovani amanti dell'arte frequentasse contemporaneamente, e con loro lo stesso Giorgione, anche il colto cenacolo formatosi in terraferma, tra Asolo ed Altivole, attorno alla corte della spodestata regina di Cipro, Caterina Cornaro. La consonanza tra la sensibilità poetica del nostro e quella, ad esempio, del Pietro Bembo degli Asolani (che ha pochi anni più lui), sembrerebbe confermarlo. A tal proposito aiuta la stessa Pala di Castelfranco, commissionata all'artista da Tuzio Costanzo, fedelissimo della Caterina Cornaro sin dai tempi di Cipro. Bisogna considerare, in più, che Giorgione fu sicuramente in contatto con i circoli umanistici, oltre che veneziani, anche padovani. I suoi committenti, inoltre, tenevano tanto alle sue opere da non volersene separare, o da separarsene con fatica: alla richiesta d'Isabella d'Este per acquistare una , Taddeo Albani risponde che con quel soggetto a Venezia ne conosce due, ma .

Premesso che l'attività artistica di Giorgione abbraccia sostanzialmente il lasso di tempo di un decennio, o poco più, e che il Vasari fissa al 1507 la data d'inizio di quella che egli chiama la del , vediamo adesso velocemente quali sono alcune delle opere, oggi conosciute, che le fonti più antiche riferiscono a Giorgione, rintracciate dalla critica moderna con sicurezza, anche sulla base della comparazione stilistica. Collocabili entro il primo lustro del secolo sono tutta una serie di lavori dove forte si sente l'influsso di Giovanni Bellini. E' il caso delle due tavole raffiguranti rispettivamente la Prova di Mosè (figg. 353- 355) ed il Giudizio di Salomone (figg. 356, 357) degli Uffizi di Firenze, lasciate forse incompiute e finite da un seguace nei modi del Carpaccio. La mano del maestro è ravvisabile con maggior certezza nelle figure centrali del Mosè e nel paesaggio del Salomone. La Giuditta con la testa di Oloferne (figg. 358, 359), del Museo dell'Ermitage di Pietroburgo, appare alquanto prossima nei modi alla pala del Duomo di Castelfranco con La Madonna in trono tra Santi (figg. 360-364). Quest'ultima viene per la prima volta menzionata in occasione della visita pastorale del 1603, allor quando il vescovo Molin, sulla spinta delle precise prescrizioni della Controriforma, ne mette in evidenza il notevole stato di degrado, ordinando che l'altare dei Costanzo sia ; ordine per fortuna non ascoltato. La sua particolare vulnerabilità a danni di varia natura, ha fatto sì che il dipinto, nel corso dei secoli, subisse numerosi restauri. Tra questi, alcuni si sono rivelati sensibilmente deleteri, come quello che nel secolo scorso ha portato a parchettare il retro del dipinto con un legno che reagisce agli agenti atmosferici ed ambientali in modo diverso da quello della tavola, causando tutt'oggi sollevamenti e cadute della pellicola pittorica (la fig. 365 illustra le parti che nel corso del tempo sono andate irrimediabilmente perdute e sostituite da ridipinture). A riferirla per la prima volta al Giorgione è invece il Ridolfi, nel 1648. La sua data di realizzazione è stata dalla Anderson recentemente anticipata di alcuni anni rispetto a quella del 1504-05, forse più veritiera, tradizionalmente accettata. Committente del dipinto rimane comunque il generale Tuzio Costanzo, che la fa eseguire per collocarla all'interno della cappella di famiglia, dedicata a San Giorgio, nella vecchia chiesa di San Liberale di Castelfranco (fig. 365bis), che una tradizione locale, documentata però solo dal 1803, vuole fatta erigere per commemorare il figlio Matteo, giovane guerriero morto nel 1504 (come informa la scritta sulla sua pietra tombale, conservata oggi assieme alla Pala nella nuova cappella del Duomo settecentesco). Tuttavia è probabile che i Costanzo avessero un loro cappella già prima della morte del figlio. Il Melchiori, sulle tracce del Ridolfi, ricorda la cappella tutta affrescata, e fa il nome di Giorgione pure per quei dipinti. La composizione dell'opera si fonda su di uno schema piramidale creato, nella parte antistante il parapetto rosso, con pochi elementi di profondità spaziale e geometrica: il pavimento ed il baldacchino col trono. L'uno e l'altro, nella visione d'insieme, presentano dei presunti errori prospettici: le mattonelle del pavimento penetrano la profondità dello spazio ben oltre a quella che appare la volumetria del baldacchino e del trono; la base del trono è colta da un punto di vista rialzato, mentre i braccioli sono colti dal basso. Il Bellavitis, sulla base della prospettiva del pavimento, ha realizzato una ricostruzione della pianta e dell'alzato della Pala, evidenziando un risultato sorprendente (fig. 365ter): la base del trono, che riporta il tondo con lo stemma dei Costanzo, verrebbe ad avere la profondità sufficiente ad accogliervi sopra la pietra tombale di Matteo. Ciononostante, chi guarda il dipinto non ha la sensazione di tale profondità, perché? Penso sia poco credibile imputare al maestro, per quanto giovane potesse essere al momento della realizzazione di quest'opera, un errore di prospettiva così grossolano che, per di più, permette la ricostruzione fatta dal Bellavitis. Un'altra "ingenuità" di questo tipo la si nota nella figura della Madonna: è stato ripetutamente notato come il busto ed il volto siano sproporzionatamente troppo piccoli rispetto alle gambe coperte dal manto. Le radiografie, inoltre, evidenziano diversi ripensamenti nella costruzione prospettica dello spazio. Tutto ciò fa pensare che il Giorgione, impegnato ad completare la tavola, magari a Venezia, abbia avuto, in fase ancora di esecuzione, un cambiamento di richiesta da parte del committente, e a seguito delle nuove esigenze abbia risolto la Pala come la vediamo noi oggi, "salvando ed adattando il salvabile" della sua prima idea. A riguardo degli errori prospettici del trono, questi scomparirebbero se la Pala fosse stata pensata per essere vista da una distanza ravvicinata, con lo sguardo giusto all'altezza del grembo della Madonna, punto verso il quale convergono tutte le linee prospettiche. A tal proposito, alcuni studiosi hanno supposto che, nella collocazione originaria, la tavola fosse posta in un luogo ribassato. Nella risoluzione di tutti questi enigmi, ci può forse venire in aiuto la pietra tombale di Matteo Costanzo (fig. 366); essa stessa fonte di altri problemi, che cercheremo di elencare di seguito, in sintesi. Sulla base del ritrovato testamento di Tuzio Costanzo, la Anderson sostiene che tale pietra dovesse essere in origine posta sul muro. Così, infatti si legge nel testamento del 1510: . Tuttavia, non si deve forse prendere alla lettera quel che allora poteva essere semplicemente un modo di dire, intendendo in realtà che volesse essere sepolto nel pavimento, dov'è più probabile. Guardando la pietra tombale di Matteo, è difficile pensare che essa sia stata fatta per trovar posto sul muro: appesa in verticale (come lo fu quando fu trasportata all'interno del Museo all'inizio del secolo) rappresenterebbe un unicum nella storia iconografica dei sepolcri dell'epoca; inserita orizzontale in una parete, magari pure scavata a nicchia, risulterebbe lo stesso alquanto improbabile, considerato che è scolpita a basso rilievo (e non ad alto come lo sono quelle che sono pensate sin dall'inizio per una siffatta collocazione, cioè per essere viste di piatto, orizzontalmente e di lato), pertanto sarebbe ben poco visibile ed illeggibili sarebbero tanto le scritte su di essa incise, quanto lo stemma di famiglia. Per la pietra tombale, probabilmente fatta in relazione alla Pala, verrebbe da chiedersi chi l'ha scolpita, se per la Pala i Costanzo hanno voluto Giorgione! Le condizioni della lapide non permetteranno forse mai di trovare una risposta; ma è proprio il suo stato di conservazione (consunto da secoli di usura) che fa supporre una logica collocazione su un punto che, col tempo, ne abbia causato tanto degrado (fosse stata sul muro, lo stato di conservazione sarebbe buono, o al massimo avrebbe subito danni di altro genere; sarebbe stata magari scheggiata, o magari la lastra marmorea sarebbe stata spezzata in più parti, ma non avrebbe certo avuto l'usura causata da secoli di strofinio, come dimostra la sua superficie).

Abbandonando in questa sede tutto questo genere di problematiche, che nella lettura artistica dell'opera sono alquanto marginali, se non fossero in relazione anche alla sua datazione (così come i problemi sorti sull'identificazione del Santo armato sulla sinistra), la tavola di Giorgione presenta a livello iconografico una novità sensazionale rispetto alle rappresentazioni delle pale d'altare con Madonna e Santi fino ad allora viste (almeno da noi): il paesaggio retrostante. La riduzione dei Santi, si accompagna all'eliminazione della tradizionale architettura con la nicchia absidale, entro la quale si svolgeva la scena sacra, che è sostituita da un vasto paesaggio aperto sullo sfondo, al di là di un parapetto rosso; al di qua, le figure sono disposte in un'inedita composizione triangolare ed il loro atteggiarsi non è più distaccato, ma borghesemente disponibile ad un colloquio silenzioso di sguardi malinconici, specie nella Madonna, che assomiglia ad una pastorella dell'Arcadia. L'opera traspira ancora di richiami belliniani, ma il colore è steso con maggior libertà, in modo tale che su di esso la luce possa reagire esaltando al massimo la capacita evocativa del tono, dando così forma ad un'atmosfera diffusa e vibrante, che diviene l'elemento coordinatore dell'insieme (ma l'opera deve essere vista tanto nel suo "macrocosmo", ovvero nell'insieme, quanto nel "microcosmo" dei singoli particolari, dove l'artista mostra una qualità tale, ed una paziente e lenta grazia esecutiva, fatta di continue modulazioni a pennelli fini, ricche di tocchi e velature leggere, da poterlo considerare quasi il Raffaello veneto). E' il colore, dunque, inteso non più come riempitivo, che permette a Giorgione di fondere in una visione unitaria il primo piano col paesaggio retrostante, dove la natura non è architettata a modo di scenografia, come nei dipinti quattrocenteschi, ma è sentita per qualità di toni, per rapporti tra masse cromatiche. La Pala non è ancora dipinta in quella del , tuttavia è la sintesi di quanto di più moderno c'era allora, in arte, in area veneta. Il punto di partenza è lo sviluppo atmosferico e "plastico" maturato dal Bellini (e dal Carpaccio) sugli esempi di Antonello, ma la composizione, come abbiamo visto, è rivoluzionaria e solo attraverso il linguaggio espressivo dei rapporti tonali, l'artista risolve la divisione tra primo piano e fondo. Rapporto tonale, significa contrapporre una massa cromatica all'altra nella loro capacità di reagire alla luce, ed in questo senso il Giorgione, qui, è in una fase di ricerca: sente che lo sfumato leonardesco lo aiuta nel modulare i passaggi tonali all'interno dei singoli elementi o dei singoli particolari, ma le figure e le masse volumetriche del primo piano (e del primo piano con lo sfondo) persistono nell'essere legate tra loro da una costruzione prospettica, che è quasi un vincolo alla straordinaria libertà cromatica. Da un'opera come questa, si intuisce già quale sarà il passo successivo fatto dall'artista verso quel , perché solo così, quello che nella Pala è ancora un vincolo, nelle opere successive sarà pura poesia del colore. Infatti, se noi andiamo a seguire i punti del primo piano dove la costruzione di una forma architettonica, o di una massa volumetrica delle figure, si contrappone in maniera piuttosto netta nei confronti degli elementi figurativo-cromatici retrostanti, vediamo come Giorgione è costretto a risolvere il contrasto ricorrendo ad un disegno sottostante che ne risolva spazialmente la profondità. Guardando, ad esempio, il manto rosso della Vergine (ed in modo particolare il lembo in basso a destra, a contatto diretto col paesaggio), si sente come solo attraverso la voluminosità delle pieghe elaborata, con le sue spigolature, su iconografie nordiche, possa spazialmente far emergere in avanti la massa cromatica: in una costruzione complessiva pensata come nella Pala, una soluzione diversa, di puro volume cromatico, avrebbe costretto l'artista a ribaltare totalmente l'impianto architettonico, probabilmente sino ad eliminare la barriera stessa del parapetto rosso (che invece, nel contesto particolare di quest'opera, è un elemento che unisce cromaticamente, non divide, il primo piano dallo sfondo). E' lo stesso problema, in termini diversi, che ha imposto all'artista il leggero rialzo dello scalino sul pavimento, dove poggia il piede della gamba non portante del Santo in armatura: se la costruzione si sviluppa su di uno spazio inteso geometricamente, è attraverso la geometria (il rialzo del gradino) che deve essere risolto. La situazione, quasi per incanto, cambia radicalmente nel paesaggio: là, infatti, tutto si risolve attraverso fusioni cromatiche e continue variazioni di rapporti tonali, sin nel sentiero che si snoda sinuoso alla destra del trono o nel colloquio pacifico dei due guerrieri sul prato, nelle fronde degli alberi o negli stessi edifici sulla sinistra. Il paesaggio esprime, già da quest'opera, la rappresentazione visiva del legame vitale che unisce l'uomo alle cose e alla natura attraverso l'esperienza fatta vivendo in esse. Il motivo centrale dell'arte del Giorgione si può allora dire che diviene, da subito (e più ancora poi nelle opere successive, al di là degli stessi particolari ed enigmatici temi trattati), la relazione profonda e vitale tra uomo e natura, il perpetuo, cioè, rinnovarsi della natura nell'atto di "ri-velarsi" alla contemplazione umana. La Pala di Castelfranco, confrontata ad un'opera presumibilmente contemporanea come, ad esempio, la Madonna in trono con Bambino e Santi (fig. 345), dipinta nel 1505 dal Bellini per la chiesa di San Zaccaria in Venezia, è di una novità sconcertante, al punto tale da suscitare la reazione del Lotto con la Pala di Santa Cristina al Trivarone (fig. 309), del 1507. Un'opera tanto complessa ed innovativa come questa, che mostra il giovane Giorgione

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