Sei in: Risorse: Portfolio:

Portfolio

Appunti sul ritratto: pittura e fotografia, analogie e tecniche


Copyright © 2000 Studio Mondi Dipinti Antichi e Moderni - Italy - All Rights Reserved - Site design and html by Studio Mondi - If you want to use anything from this site, please email to the Studio beforehand to ask for permission. - Domain name studiomondi.it created on: 10-Sep-2000 - Registrant www.studiomondi.it studiomondi@tiscalinet.it

(visibile completo in: //xoomer.alice.it/studiomondi/ritratto.htm )

APPUNTI SUL RITRATTO:

PITTURA E FOTOGRAFIA, ANALOGIE E TECNICHE

di Marco Mondi

Quando nel 1839 da Parigi si diffuse la notizia della scoperta della fotografia, lo sconcerto e lo scompiglio che provocò nel giro di pochissimo tempo fu enorme. Se si vuol oggi renderne l'idea, si può far riferimento al clamore, ben più modesto an­che se sicuramente più sconvolgente, apportato negli ultimi decenni dalla rivoluzio­ne, tutt'ora in corso, dell'informatica.

Il filo diretto che lega la storia della fotografia all'informatica rimane per in­ciso la tecnologia con i suoi passi da gigante compiuti nell'ultimo secolo in un crescendo vorticoso ed esponenziale.

Bill Gates, il re dei computer, com'è stato nominato, che l'11 novembre dello scorso anno alla Christie's di New York s'è aggiudicato, per oltre 48 miliardi di lire, il Codice Hammer di Leonardo, è convinto che l'informatica nel prossimo decen­nio sarà alla base di ogni azione. In quella che è stata definita , il nuovo medium ha percorso e sta percorrendo, ben s'intenda in termini sostanzialmente diversi, in un certo qual modo l'iter evolutivo dell'impatto che la fotografia ha avuto, dalla sua comparsa, con la tradizione millenaria dell'arte.

Le scoperte di Niepce, di Daguerre, di Talbot, ecc., portarono l'intero mondo dell'arte a meditare attentamente sul rapporto che vi doveva essere col nuovo mezzo di riproduzione, e da quel momento l'arte tradizionalmente intesa non poté, nei più differenti modi, se non convivere in un reciproco interscambio con la fotografia. E' quello che sta succedendo oggi con l'universo dell'informatica, della telematica, del compact disc, del microsoft, del chip, delle fibre ottiche... della realtà vir­tuale. Il vecchio computer usufruiva di immagini in bianco e nero, come le prime fo­tografie. Poi si è riusciti a riprodurre una gamma cromatica di 16 colori: analoga­mente nelle prime fotografie a colori gli esperimenti convergevano nello studio dei colori primari e complementari. In seguito per la fotografia il colore non fu più un problema: oggi esiste una generazione di nuovi computer in grado di visualizzare 16 milioni di colori, ben più di quanto l'occhio umano possa percepite. Questi raffron­ti rimangono comunque alquanto superficiali. Resta il fatto, però, che l'impatto del mondo dell'arte con la fotografia può essere paragonato a quello che oggi ha con l'informatica quando si pensa a quanta inquietudine suscita, tra i tanti esempi ci­tabili, la possibilità di usufruire di Cd-Rom popolari sull'arte (l'editoria arti­stica del futuro), di visite a musei virtuali, di schermi sottili da appendere ai muri di casa riproducenti a piacere tutte le opere d'arte prescelte, di una realtà immaginaria che si muove nel cyberspazio e nel cybertempo. Non sorprende quindi la ferma reazione di coloro che guardano a tutto ciò, come centocinquant'anni fa si guardava alla fotografia, con diffidenza e che mettono in guardia dal mitizzare i multimedia perché, se , in alcu­ni settori dell'arte, possono in quanto vi sarebbe, come avreb­be detto Pasolini, uno sviluppo senza progresso. L'esempio classico è quello della Gioconda di Leonardo, trasformata dalle sue riproduzioni in un feticcio turistico. Un'operazione, questa, chiamata da qualcuno il "crimine perfetto", vale a dire l'o­pera d'arte uccisa dal suo doppio: al fruitore non interessa contemplare e capire la Gioconda , ma verificare la sua corrispondenza con l'immagine conosciuta dalla sua riproduzione. L'artista moderno corre il rischio (e non è detto che questo debba per forza essere positivo o negativo, ma sicuramente è diverso) di formarsi attraverso una realtà virtuale, cibernetica e telematica, capace di alterare la sua percezione visiva e di rompere il legame temporale e spaziale con le opere d'arte del passato. L'opera d'arte a furia di esser riprodotta non rimane più tale per la nostra perce­zione, portando alla , diceva Walter Benjamin in merito alla riproducibilità, con una sorta di preveggenza quanto mai attuale.


L'artista, prima dell'avvento della fotografia, percepiva la realtà, e di conse­guenza la stessa arte, in maniera sostanzialmente diversa dalla nostra. L'arte, in qualche modo, aveva sempre come punto di riferimento la mimesi, l'imitazione del mondo visivo. Il figurativo, ieri come oggi, deve essere inteso come l'operazione conoscitiva intrapresa dalla mente umana per poter definire un qualcosa che esiste al di fuori e che può essere visualizzato attraverso il filtro ottico dell'occhio. In natura non esiste figurazione ne' astrazione. Astratto è quindi tutto ciò che non trova un nome od un riconoscimento dal processo cognitivo umano di sintesi attuato dal nostro intelletto, affinché possa essere compiuta una valutazione della realtà che ci circonda. Allo stesso modo la scrittura si serve delle parole, entità di per sé astratte, alle quali convenzionalmente è stato dato un significato al fine di po­ter formulare un'idea.

La pittura rupestre, ed ogni genere di successiva stilizzazione, s'è valsa della qualità simbolico-convenzionale dei segni per poter comunicare. L'uomo primitivo non è che non sapesse disegnare o dipingere se nelle sue raffigurazioni ricorreva alla stilizzazione (tra l'altro, vi sono alcune rappresentazioni, soprattutto di animali, sorprendentemente realistiche), solo che le sue esigenze espressive apotropaico-taumaturgiche meglio venivano soddisfatte attraverso la simbologia.

Il ritratto nell'antichità nasce per lo più quale forma sostitutiva della persona morta. Non necessariamente, in origine, doveva intendersi con le connotazioni essen­ziali della somiglianza nei tratti fisici e della individuazione del carattere mora­le, prerogative che trovano particolare sviluppo, in Occidente, soprattutto dall'an­tichità classica. I primi ritratti dovettero essere una sorta d'immagine antropomor­fica dall'alto valore simbolico. E, per le civiltà primitive, piuttosto che parlare di vero e proprio ritratto, è forse meglio considerare il problema della "identifi­cazione" con una persona ben definita, sia questa umana o divina. In ogni caso, tan­to meno l'immagine era stilizzata quanto più era esorcizzato l'incubo del trascen­dente: in effetti, una fioritura del ritratto si riscontra ogni qual volta una ci­viltà raggiunge momenti di benessere economico, d'indifferenza religiosa e di preva­lere dell'organizzazione cittadina sulla teocrazia religiosa e politica.

Durante l'antichità classica, è con l'ellenismo che si ha uno dei momenti più fe­lici per la ritrattistica dove, come per le sculture raffiguranti i personaggi più famosi dell'epoca o per la prodigiosa ritrattistica del Fayyum, un alto valore ven­gono ad assumere, nella somiglianza, i caratteri fisionomici psicologico-celebrati­vi. Con la mummificazione nell'antico Egitto e con il ricorso ai calchi nell'epoca greca e romana, nonché nell'età moderna con altri espedienti (vedi la camera ottica), nel cercare la somiglianza non erano disdegnati ogni sorta di procedimenti meccanici che potessero aiutare. Soprattutto dalla metà del XVI secolo, però, si i­nizia a distinguere tra imitare e ritrarre, in quanto al ritratto viene dato un va­lore superiore, rispetto alla semplice qualità di mimesi dell'imitare, attraverso la capacità di cogliere al di là dell'immagine stessa esteriore della persona effigia­ta. In questo senso, la fotografia sarà da alcuni a lungo accusata di saper solo co­gliere l'immagine, l'involucro della persona, senza saperne fare il "ritratto". Ed è nel continuo dibattito tra la capacità creativa di ritrarre e la fredda possibilità d'imitare che si snoderà gran parte della storia del ritratto in fotografia, con tutte le inevitabili, reciproche, influenze e correlazioni col ritratto in pittura.

Fin dai tempi più antichi, l'uomo s'è servito di procedimenti meccanici nella rea­lizzazione delle sue opere artistiche e la distinzione tra scienza ed arte non aveva un limite così netto come l'attuale. Già nel mondo greco, per osservare gli astri, si usarono certi congegni assai simili alle camere ottiche. Gli Arabi, sin dall'XI secolo, conoscevano i principi della camera oscura e sapevano che la luce altera l'aspetto del cloruro d'argento. Durante l'Umanesimo ed il Rinascimento, la scoperta della prospettiva fissava delle regole matematiche attraverso le quali riportare la realtà sulla tela. Negli stessi anni, molti artisti si servirono di veri e propri baldacchini e di un'innumerevole quantità di altre invenzioni, sia meccaniche sia lenticolari, in grado, anche nei ritratti, di garantire una fedeltà d'imitazione sempre maggiore. Gli artisti del Barocco, con le loro ricerche scenografiche e con le loro illusioni ottiche, diedero un notevole contributo alla conoscenza della ca­pacità visive dell'occhio. Nel Seicento Vermeer, con ogni probabilità, e nel Sette­cento Canaletto e Guardi, non furono i soli a servirsi nell'esecuzione delle loro straordinarie opere della camera ottica, strumento piuttosto diffuso. Gli artisti che usavano la camera oscura non avrebbero desiderato altro che avere la sua immagi­ne stabilmente fissata sulla carta. Si tentò quindi, nei modi più diversi, di riu­scire in questo.

I primi esperimenti fotografici veri e propri vennero fatti tra gli ultimissimi anni del XVIII ed i primissimi del XIX secolo. Ma il fenomeno ottico e quello chimi­co furono per la prima volta messi in correlazione nel 1822 dal francese Joseph-Nic­éphore Niepce, il quale, nel 1826, ottenne con una posa di otto ore la prima foto­grafia. Le successive scoperte di Luis-Jacques-Mandé Daguerre sempre in Francia, che era in contatto con Niepce, e di William Henry Fox Talbot in Inghilterra, fecero sì che, attraverso l'insigne voce dello scienziato e membro repubblicano della Camera dei Deputati François Arago, nel 1839 l'Académie des Sciences di Parigi annunciasse al mondo l'invenzione della fotografia.

Soggetto, composizione e luce furono dapprima, e lo sono ancora, per la fotografia gli elementi su cui l'artista si trovò subito a lavorare per ottenere, nelle diffe­renti ricerche, i risultati voluti. Naturalmente, la fotografia per lungo tempo at­tinse a piene mani dalla pittura: proprio questo, per alcuni fotografi, divenne il maggior limite alla autonoma capacità creativa della fotografia.

Il campo dove, praticamente da subito, le prime fotografie, i dagherrotipi (dal nome del suo inventore, Daguerre, che portò avanti le ricerche di Niepce), trovarono enorme impiego e grande richiesta, fu il ritratto.

La fotografia portò il genere artistico del ritratto ad una diffusione mai avuta prima. Da sempre, in pittura, il ritratto fu prerogativa quasi esclusiva dei ceti sociali più elevati: re, principi, signori e la loro corte, alto clero, nobiltà, ricca borghesia. Nelle tante eccezioni riscontrabili, soprattutto per alcuni periodi storici, si può comunque affermare che generalmente la qualità artistica del ritrat­to è direttamente collegata all'importanza del ruolo sociale assolto dalla persona effigiata: Tiziano, che fu uno straordinario mercante di sé stesso, eseguì quasi e­sclusivamente ritratti alle personalità di maggior rilievo politico-sociale dell'Eu­ropa del Cinquecento. La fotografia portò a quella che è stata definita come una de­mocratizzazione di questo (e non solo questo) genere artistico: Disderi, l'inventore della carte de visite (riproduzione, spesso in più esemplari e di piccolo formato, dell'effigie di una persona), che in pochi anni si espanse a macchia d'olio in tutto il mondo, arrivò a vendere ben 2.400 ritratti al giorno. Il costo per un ritratto fotografico era notevolmente inferiore rispetto a quello pittorico, quindi accessi­bile ad un numero sempre più elevato di persone.

Se tecnicamente il ritratto fotografico nei confronti di quello pittorico aveva numerosi vantaggi, e tra questi l'assoluta somiglianza nella resa dei lineamenti fi­sionomici della persona effigiata, aveva altresì numerosi svantaggi. Confrontato con la pittura, il ritratto fotografico mancava innanzitutto del colore. Questa "singo­lare incisione" o questo "disegno eseguito dal sole", com'era al suo comparire cu­riosamente definita, trovò da prima un diretto raffronto con il disegno e l'incisio­ne (e nei confronti dell'incisione, la fotografia ne assorbirà il secolare ruolo di divulgazione di immagini per mezzo della carta stampata, influenzando, quindi, non poco sugli artisti anche attraverso la fedele riproduzione delle stesse opere d'ar­te). Il problema del colore rimase per tutto il secolo scorso ed una buona parte del nostro (almeno fino alla fine degli anni Trenta, quando dalla Kodak e dall'Agfa fu­rono messe in vendita le prime pellicole a colori) un campo dove la scienza fotogra­fica si impegnò continuamente: esperimenti di fotografie a colori vennero fatti già verso la metà dell'800; ed è da tenere in particolare considerazione il rapporto, forse ancora troppo poco studiato, di questi esperimenti con le nuove teorie scien­tifiche sui colori in campo artistico, che portarono verso la fine del secolo alla formazione di movimenti, in Francia, come il Pointillisme , ed in Italia, come il Di­visionismo. Al problema del colore, comunque, la soluzione più semplice ed immediata fu di colorare direttamente il bianco e nero della fotografia. Il legame con la pit­tura, in questo senso, com'è ovvio, fu strettissimo.

Un'altro grave inconveniente delle prime fotografie fu il lungo tempo di posa ne­cessario affinché l'immagine potesse essere impressa sulla lastra. Singolari risvol­ti si ebbero nel genere del ritratto. Osservando i dagherrotipi e le prime fotogra­fie su carta si riscontrano, più o meno visibili, alcune conseguenze costanti dovute a questo inconveniente, che vengono gradualmente a sparire con le nuove scoperte tecniche. Tra queste, una delle più singolari, che a primo acchito sembra il frutto di una moda, è la posizione del braccio e della mano dell'effigiato quasi sempre ap­poggiati al volto, dando al modello una seducente aria cogitabonda. Ciò era dovuto alla necessità di garantire la maggiore stabilità ed immobilità possibile al volto, affinché durante i lunghi tempi di posa non si muovesse. I pittori si servirono pra­ticamente subito della fotografia, e questo particolare atteggiamento pensoso compa­rirà per qualche decennio anche nei loro ritratti, perché, appunto, tratti dalla fo­tografia. Il fotografo della metà del secolo scorso escogitò comunque ben presto e­spedienti per evitare questo inconveniente, tra i quali, ad esempio, dei veri e pro­pri appoggiatesta invisibili alla macchina fotografica.

E' la luce ad imprimere la lastra fotografica durante il tempo di posa. La lun­ghezza dei tempi di posa era dovuta alla scarsa sensibilità della lastra, che ri­chiedeva, quindi, anche una forte illuminazione. La luce del sole era spesso l'idea­le. Le fotografie all'interno era più problematiche in quanto richiedevano una forte luce artificiale o, come spesso avveniva, un complicato gioco di specchi che ne por­tasse dentro la luce solare. La forte illuminazione impediva all'effigiato di tener sempre gli occhi aperti. Molti dei primi ritratti fotografici lo mostrano, infatti, con gli occhi chiusi. A questo si poneva rimedio dipingendogli successivamente gli occhi.

Le continue ed accelerate scoperte tecniche nel campo della fotografia portarono a rapidi cambiamenti nei risultati. Con i dagherrotipi era possibile ottenere un'imma­gine perfettamente nitida con una resa minuziosa dei particolari. Ciò non influenzò poco la contemporanea pittura che se ne servì, la quale divenne tendenzialmente, co­me si usa dire tutt'oggi, "fotografica". Il Realismo, ma anche le successive scene di genere, sono in stretto rapporto con l'impiego della fotografia.

Gli esperimenti di Talbot e le prime fotografie su carta portarono ad ottenere ef­fetti molto diversi rispetto a quelli del dagherrotipo. Alla lucida minuziosità, so­prattutto, si sostituì un modulato sfumare chiaroscurale per le zone in ombra che si contrapponeva in modo piuttosto marcato con le chiare zone di luce. Anche questo non tardò ad influire sulla pittura contribuendo ad avvalorare nuove tendenze artisti­che. Se ancora non si sa fino a che punto, ad esempio, Manet fosse stato influenzato dalla fotografia, certamente ci sono delle analogie tra il suo colorare ad ampie campiture cromatiche e l'alternarsi della parti chiare e di quelle scure nella con­temporanea fotografia.

Pittura e fotografia si influenzarono reciprocamente avvalendosi, spesso, una dei mezzi espressivi dell'altra. Se vi furono molte forme di collaborazione, sin da principio, la fotografia fu vista dagli artisti come una pericolosa antagonista. Nel genere del ritratto, in modo particolare, considerata la sua pressoché irraggiungi­bile abilità di riprodurre i lineamenti fisionomici, i pittori si sentirono minac­ciati. Sorsero non poche polemiche e vi furono artisti che si schierarono apertamen­te a suo favore, come Delacroix, o contro, come Ingres.

Una delle principali paure era che la fotografia potesse rubare il lavoro ai pit­tori. Questo si rivelò vero solo in parte, con esclusione forse per il genere della miniatura, che venne effettivamente messo in crisi. Per la pittura, in un certo sen­so, la fotografia fu benefica, in quanto da un lato portò ad una più chiara distin­zione tra pittori di mestiere ed artisti, dall'altro aiuto gradualmente a liberare l'arte pittorica dalle secolari convenzioni dell'imitare la realtà dandole la possi­bilità d'indagare nuovi campi e di usufruire di nuovi mezzi espressivi.

Ci vollero, però, non poche lotte e non poco tempo perché la fotografia fosse ri­conosciuta apertamente come genere artistico. La sua meccanicità, nel giro di qual­che decennio, dette la possibilità a chiunque di usarla. Molti pittori di mestiere, messo in crisi il loro lavoro dalla fotografia, divennero fotografi ed un gran nume­ro di essi continuarono a servirsi del mezzo fotografico secondo gli schemi della pittura. La fotografia veniva accusata di saper solo ritrarre obiettivamente, senza interpretare. Per reagire a questo, molti fotografi, affondarono ancora di più la fotografia nella visione artistica della pittura, credendo che nella sua imitazione stesse la possibilità di innalzarla all'empireo dell'arte. Solo pochi, rispetto all'enorme massa di persone che scattarono fotografie, furono coloro che capirono che la fotografia era un'altra cosa rispetto alla pittura e che si serviva di mezzi espressivi totalmente differenti. Nadar, che fu un grande amico degli impressioni­sti, tanto che la prima mostra da loro tenuta fu allestita nel suo ex studio foto­grafico, non si sforzò mai di far fotografie impressioniste; tuttavia, il suo rap­porto, emblematico sotto molti aspetti, con la pittura degli impressionisti, ma an­che con la pittura in genere, appare molto più profondo e sentito rispetto a coloro che dalla pittura attinsero a piene mani, snaturalizzando il mezzo fotografico di cui si servivano.

Presa coscienza dei propri mezzi espressivi, la fotografia concentrò la sua atten­zione non più solo sul momento dello scatto (scelta del soggetto, scelta dello sfon­do, messa in posa, illuminazione, ecc.), bensì anche sulle fasi dello sviluppo e della stampa, accorgendosi così che il risultato estetico poteva essere ottenuto an­che servendosi di altri processi tipicamente fotografici. Questa presa di coscienza stimolò tantissimo gli artisti a sperimentarne tutte le possibilità espressive ri­cercandone, al tempo stesso, delle nuove, sollecitando così ed attingendo dalle in­novazioni tecniche e dalle ricerche scientifiche.

In campo artistico, la reazione alla fotografia può essere sostanzialmente ricon­dotta a due modi diversi di subirla o di accettarla. Nel primo caso, la fotografia, come conseguenza dello sviluppo tecnologico della società moderna, era vista anch'essa come il risultato di un mondo entro il quale l'arte sarebbe stata gradual­mente sostituita dalla macchina. L'artista, allora, doveva cercare altri luoghi nei quali indirizzare le sue ricerche figurative: è la reazione, ad esempio, dei simbo­listi con la loro fuga in un universo artistico, o in un paradiso perduto, lontano dalle dispute della società moderna, all'interno della quale non riuscivano a trova­re più un loro spazio. La fotografia, nel secondo caso, era considerata invece il risultato delle continue ricerche apportate dalla scienza moderna per contribuire, assieme all'arte, alla costruzione di una società che si potesse servire della mac­china per raggiungere un benessere sempre maggiore. L'artista, allora, poteva ser­virsi liberamente della fotografia al pari di ogni altro mezzo espressivo, in quanto il suo scopo era intervenire attivamente nella costruzione della nuova società, an­che se far questo poteva voler dire attaccarne violentemente le regole affinché ve­nissero revisionate, corrette o totalmente rivoluzionate. Per questo artisti come Degas e Toulouse-Lautrec la sfruttarono senza remore, allo stesso modo di come gli architetti del funzionalismo si serviranno, una volta presa coscienza delle grandi possibilità espressive dei nuovi mezzi di costruzione, del cemento armato e dell'ac­ciaio. Questa dicotomia nell'arte rimase sostanzialmente anche nel nuovo secolo fino ai nostri giorni: con il razionalismo, ad esempio, del Bauhaus contrapposto all'ir­razionalismo Dada e surrealista, o poi con la Por art contrapposta all'arte della pubblicità asservita al circuito consumistico della società moderna.

La fotografia, una volta riconosciuta come genere artistico al pari di tutti gli altri, non fu più considerata come un semplice e sterile frutto della tecnologia, ma entrò a pieno titolo tra le forme espressive dell'uomo, seguendo l'indirizzo esteti­co voluto di volta in volta dall'artista che se ne doveva servire.

ALCUNE OPERE ANALIZZATE

di Marco Mondi

1) - SANTA SINDONE, lenzuolo di lino, cm. 436 x 110, Torino, Cappella della Santa Sindone.

Il drappo funebre nel quale fu avvolto, secondo la narrazione evangelica, il corpo di Gesù Cristo dopo essere stato deposto nel sepolcro è considerato da un gran nume­ro di studiosi come l'effetto prodotto da un'impressione per "vaporografia". In bre­ve, i patimenti subiti da Gesù crocifisso ricoprirono il suo corpo di sudore febbri­le, le cui componenti chimiche fermentarono al contatto dell'umidità atmosferica dell'interno del sepolcro, permettendo l'emanazione di vapori che andarono ad im­pressionare il tessuto di lino che, abbondantemente impregnato di aromi sensibili, ne conservò l'immagine in negativo, con un procedimento analogo a quanto avviene sulla pellicola fotografica per azione della luce. Il processo di "vaporografia" qui sommariamente descritto, illustrato nel 1954 dal Vignon, non ha incontrato serie confutazioni. La Santa Sindone può esser quindi considerata, sotto molti aspetti, la più antica fotografia del mondo.

Ad accorgersi che la Santa Sindone era una sorta di negativo fotografico fu il fo­tografo piemontese Secondo Pia, quando nel 1898, con il consenso dei Savoia, foto­grafò per la prima volta il sacro linteo. Grande fu la sorpresa quando il Pia vide, sulle due lastre impiegate per la riproduzione, il positivo dell'immagine impressa nel sacro drappo. L'immagine di Cristo sulla Sindone era pertanto un vero e proprio negativo simile a quello fotografico. L' dell'im­magine ottenuta in negativo (il positivo del negativo della Sindone), aiutò in se­guito altresì di escludere alcune delle supposizioni sull'origine della figurazione.

La Santa Sindone riproduce perfettamente l'intero corpo di una persona e, come prima fotografia della storia, evidenzia subito una delle sue principali caratteri­stiche: la capacità di riprodurre perfettamente il reale. A differenza della pittu­ra, ed esempio, dove ogni immagine prodotta dalla lunga storia dell'arte porta ine­vitabilmente la caratterizzazione stilistica dovuta alla cultura figurativa del pro­prio tempo, l'immagine impressa nella Santa Sindone, qualora fosse quella di Gesù Cristo (l'autorità ecclesiastica, pur permettendone la venerazione, non ne ha mai dichiarato l'autenticità), ne sarebbe indubbiamente un fedelissimo ritratto. Non è infine casuale che la cultura figurativa si sia da sempre ispirata alla tipologia di questo volto per figurare quello del Cristo.

2) - PIERO DELLA FRANCESCA, Dittico dei duchi di Urbino, ritratto di Battista Sforza e Federico II da Montefeltro , 1465, tavola, cm. 47 x 33, Firenze, Uffizi.

Tra le principali caratteristiche della fotografia, da subito riconosciute, vi fu l'assoluta fedeltà nel riprodurre la realtà visibile con risultati che nessun arti­sta, servendosi della pittura, avrebbe mai potuto raggiungere; e questo nonostante alcune imprecisioni, ben presto svelate, come ad esempio quelle dell'alterazione prospettica operata da obiettivi diversi. La fotografia, comunque, si trovò in parte ad assolvere a quella volontà di mimesi da secoli perseguita in arte.

Nella mentalità scientifica del primo rinascimento italiano, l'arte doveva tratta­re certezze e non opinioni, e si riteneva che le certezza potessero essere raggiunte essenzialmente dalla matematica. Compito dell'artista era quindi riprodurre una realtà "ideata" prima nella teoria e sperimentata poi nella pratica: la realtà in pittura era ciò che si poteva provare occupasse una data posizione nello spazio il­lusorio di una superficie. La scoperta della prospettiva scientifica vien fatta ri­salire al Brunelleschi il quale si servì, in almeno un dipinto, di mezzi meccanici per provare la validità della sua teoria. Enunciata per la prima volta da Leon Bat­tista Alberti, il quale inventò una specie di camera oscura in grado di esaltare l'artifizio che lo portò ad creare immagini che egli stesso chiamò , la prospettiva scientifica fu rappresentata nel modo più pieno da Piero della Francesca.

Il genio di Piero, che in quest'opera propone superbamente anche un esempio di sintesi tra la cultura del primo Rinascimento italiano e quella della lucida minu­ziosità fiamminga (Rogier van der Weyden per gli effigiati, i fratelli van Eyck per lo straordinario paesaggio), torna utile per evidenziare tale ricerca scientifica nel ritratto. Le figure dei duchi d'Urbino sono volutamente colte nell'insolito ta­glio di profilo per meglio rendere la loro costruzione geometrico-matematica: nel rigore compositivo, è infatti proprio la perfetta riduzione geometrica, ed il conse­guente uso della luce e del chiaroscuro in funzione di questa, a suggerire la roton­dità dei volumi, quindi l'esatta posizione occupata dalle figure nello spazio. Cia­scuno dei ritratti, senza la presenza di alcun elemento di mediazione spaziale, si staglia imponente nella stessa atmosfera che avvolge il lontano e minuto paesaggio colto a volo d'uccello dall'alto in basso. E' una finestra aperta, dove Piero collo­ca gli effigiati in una posizione vicinissima a chi guarda, idealizzandoli in una razionalità geometrica che trova la sua perfetta esaltazione spaziale nella profon­dità del paesaggio, altrettanto idealizzato, che si apre al di là, colto, sembra quasi, attraverso l'impiego di qualche artifizio ottico.

Questo modo di concepire la realtà non esclude l'uso, come fu per Brunelleschi e Leon Battista Alberti, di aiuti meccanici, venendo questi assorbiti subito dalla ri­gorosa scienza matematica della costruzione geometrica dello spazio. Quasi come se una fotografia dovesse adattare la sua capacità di riprodurre la realtà ad una pre­stabilita riduzione geometrica dell'immagine inquadrata, che è, in fondo, ciò che avviene nella prospettiva fotografica quando si cambia l'ottica dell'obiettivo.

3) - GIORGIONE, Ritratto di donna (Laura) (part.), 1506, olio su tela da tavola, cm. 41 x 33, 5, Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Se Tiziano inventa il colore, Giorgione lo scopre. Giorgio Vasari, nella Vita di Tiziano, racconta che Giorgione usava . In realtà, anche Giorgione, come gli altri pittori, disegnava, ma in modo diverso, seguendo la pro­pria visione pittorica, non dando importanza alla linea di contorno e senza comporre col disegno grovigli di immagini, mirando invece principalmente agli effetti di luce e di ombra, con zone chiare e zone scure, con un tratto abbozzato e non finito. La stessa libertà aveva il colore, che attraverso la luce, l'ombra, la gradazione del tono e l'intensità del contrasto cromatico permetteva di raggiungere quell'assoluto equilibrio e quella straordinaria fusione, raramente eguagliata in tutta la storia dell'arte, tra pittura e poesia. Con il suo modo di dipingere, Giorgione inaugurò la tradizione moderna della pittura. Sulla cultura del Bellini, attraverso Leonardo e Dürer, egli rese, quello che era il soggetto del quadro, il motivo sul quale l'opera si doveva sviluppare. Si servì della realtà per dipingere immagini della fantasia (in termini sostanzialmente diversi, è un processo analogo a quello fatto da Hirony­mus Bosch), non curandosi di collegare il significato alla tradizione religiosa o letteraria. In questo senso egli presenta immagini piuttosto che raccontare storie. E' per questo che nelle sue opere il paesaggio, o un qualsiasi altro oggetto, ha lo stesso valore delle figure: è per questo che il colore ricopre ogni parte della su­perficie pittorica con la stessa intensità e preziosità di accordi, in maniera tanto libera da permettergli, come in molte delle sue opere, profondi ripensamenti nel soggetto. Lo stesso motivo gli permette di raggiungere il suo "sogno" figurativo senza per forza giungere a completare l'opera (molti suoi dipinti non furono voluta­mente finiti), con un lavoro lasciato non finito per gli altri, ma finito per sé stesso. Contrariamente alla tradizione che vedeva come principali committenti degli artisti la Chiesa ed i regnanti, Giorgione dipinge per sé e per i suoi amici: tant'è vero che quasi tutti i soggetti dei suoi dipinti sono di difficilissima interpreta­zione proprio perché soddisfavano la colta volontà di una ristretta cerchia di amici eruditi.

La volontà di mimesi in Giorgione va oltre la regola matematica per sottostare al­la poesia interiore, alla sensibilità dell'artista. La sua rivoluzione pittorica gli permette di avvicinarsi alla realtà servendosi della realtà. Come racconta il Vasa­ri, Giorgione si pone davanti alle e le rappresenta nel mo­do più naturale possibile: in natura la linea non esiste, ma esiste il colore. Sulla natura così concepita, egli dà vita alla sua straordinaria visione poetica. Tre se­coli dopo, la fotografia, con la sua assoluta mancanza della linea di contorno, e dando la stessa importanza ad ogni oggetto in essa raffigurato, non farà che avval­lare la geniale intuizione di Giorgione, che non gravita solo attorno allo sfumato leonardesco. Una sorta di sintesi, in questo senso, la fa Manet con il suo Le déjeu­ner sur l'herbe quando riprende il soggetto del giorgionesco del Concerto campestre del Louvre dipingendolo con ampie e piatte campiture cromatiche e forti contrasti di chiaro e scuro che sicuramente sono da mettere in relazione con gli effetti provoca­ti dalla luce sulla sensibilità della pellicola fotografica.

Dopo questa lunga premessa, è più facile leggere la cosiddetta Laura , dipinta da Giorgione quasi sicuramente nel 1506. Il dipinto è verosimile nella rappresentazione della natura, cioè del visibile, ma è altresì attentamente studiato nell'invenzione iconografica, nella scelta della luce, del colore, della positura da ricreare sulla tela una "realtà" nuova, elaborata secondo la delicata sensibilità dell'artista. La fisionomia dell'effigiata è sicuramente fedele al modello, ed è quindi un ritratto anche se allo stesso tempo è più di un ritratto: tra le varie interpretazioni s'è pensato anche ad (Pignatti). Il fascino (continua in: //xoomer.alice.it/studiomondi/ritratto.htm )


Cliente: | Anno: 1995