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Epistemologia dell’intervento

Epistemologia dell’intervento

Lucio Demetrio Regazzo

Negli ultimi decenni il campo della psicoterapia ha conosciuto una grande espansione, sia in relazione alle teorie e ai modelli applicativi....

Epistemologia dell’intervento

Lucio Demetrio Regazzo

Negli ultimi decenni il campo della psicoterapia ha conosciuto una grande espansione, sia in relazione alle teorie e ai modelli applicativi, sia per il fervore di ricerche che controllano gli effetti terapeutici del trattamento e la loro costanza nel tempo.

La vivacità che anima il mondo della psicoterapia ha avuto ripercussioni positive, ma ha introdotto problemi nuovi che, se da un versante costituiscono ulteriori stimoli al procedere metodologico, dall’altro, originano preoccupazione e confusione.

Uno di questi è l’enorme diffusione di metodi psicoterapici esistenti che si differenziano tra loro, spesso, per elementi talmente marginali da rendere inutili e confusive le differenziazioni stesse, con danno per i pazienti che ne risultano disorientati e con danno per l’immagine di questa professione perché la molteplicità delle sue espressioni metodologiche viene spesso presa a pretesto per critiche di frammentarietà, eclettismo improvvisato, contraddittorietà interna.

Si pensi che Harper, nel 1959, forniva un elenco di 36 sistemi psicoterapeutici, e solo venti anni dopo Herink ne contava 250. Ancora, una ricerca dell’Università di Padova del 1982 individuava in Italia oltre 100 Scuole di Psicoterapia con differenti denominazioni.

Una stima del 2006 delle diverse correnti psicoterapiche, ne valutava il numero su alcune centinaia

La continua diffusione di nomi diversi per definire sistemi psicoterapici molto simili ha provocato, per reazione, un movimento di riunificazione teorica che ha cercato di valorizzare le somiglianze più che le differenze tra i molti filoni. Questa reazione è stata ripresa, in Italia, addirittura dai legislatori, che hanno indicato come criteri discriminanti:

- la teoria della personalità cui si ispira il modello di psicoterapia;

- la tradizione scientifica;

- la teoria dell’intervento.

Purtroppo, come spesso accade nelle reazioni, si può giungere a condizioni che si oppongono in modo troppo forte al movimento che ha stimolato la reazione stessa; una reazione che, in via di principio, può essere corretta se non dovuta.

L’intervento del legislatore non solo non ha risolto il problema, ma ha permesso conclusioni discutibili e, a volte, oscurantiste escludendo alcune metodologie a vantaggio di altre.

Ora, il problema della diffusione del numero di psicoterapie esiste e chiede una soluzione, ma non è corretto affidare ad un soggetto diverso dalla comunità scientifica degli psicoterapeuti il compito di trovare vie risolutorie.

E certamente non pretendiamo qui di sostituirci a tale comunità e in tal senso proporre modalità valide per distinguere e riunire i vari sistemi di psicoterapia; semplicemente portiamo delle riflessioni, dopo aver osservato molte metodologie, utilizzando come elemento di confronto fra loro i concetti di ‘riparazione’ e di ‘repressione’. In questo modo desideriamo indicare quale, secondo noi, dovrebbe essere un obbiettivo primario dello psicoterapeuta: ‘riparare’ e non ‘ reprimere’.

Vorremmo esemplificare come la scelta di criteri discriminanti le psicoterapie non dipenda da premesse certe, ma dall’ obbiettivo che si intenda debba avere la psicoterapia stessa.

Per favorire l’ esposizione e la comprensione dei concetti che seguono, abbiamo utilizzato esempi ai quali riferirci sia per i modelli di psicoterapia che riteniamo ‘riparativi’, sia per quelli che riteniamo ‘repressivi’.

Gli esempi consistono in due atteggiamenti diversi verso il modo di osservare le esperienze e la realtà. Secondo questa prospettiva, gli psicologi possono distinguersi in due gruppi: psicologi fenomenologici e psicologi non fenomenologici.

Per i primi si deve osservare l’ esperienza immediata, per come appare, senza filtrarla con pregiudizi teorici: l’esperienza è considerata vera anche se non ci sono teorie che la spiegano; e, se si hanno interpretazioni o spiegazioni, queste vanno ben distinte dall’ esperienza: l’esperienza è un dato, la spiegazione è un altro dato, diverso e spesso contrapposto al primo.

Per gli psicologi non fenomenologici, invece, le esperienze devono essere sottoposte ad un esame logico e vanno registrate come vere solo se riusciamo a spiegarle. In altre parole , un’esperienza esiste solo se la si può spiegare con teorie disponibili, prima di cogliere l’ esperienza stessa.

Tradotto con termini propri alla psicoterapia: secondo i fenomenologici, i vissuti, i pensieri, le emozioni dei pazienti, vanno considerati autentici, quindi veri, così come vengono comunicati dai pazienti stessi; mentre, per i non fenomenologi, ciò che il paziente riferisce sul proprio mondo emotivo, affettivo e percettivo è spesso diverso, se non opposto all’ esperienza vera di quel paziente, spiegabile e sostenibile scientificamente.

Sadi MARHABA, psicologo ed epistemologo italiano, ha chiamato il primo atteggiamento, quello della fenomenologia, immediatismo fenomenologico; il secondo, quello della non fenomenologia, mediatismo logico.

Per quanto riguarda le psicoterapie di tradizione fenomenologica, pensiamo che al loro interno si possa trovare sia la posizione repressiva che quella riparativa; ciò non dipende da differenze tra i metodi, ma dipende da condizioni particolari, con le quali il singolo psicoterapeuta esprime il metodo.

Diverso è il discorso per le psicoterapie non fenomenologiche; in qualunque modo trovino espressione queste svolgono un’azione repressiva a causa del loro impianto epistemologico e della prassi che ne deriva.

Ciò è facilmente visibile se schematizziamo ed analizziamo gli obbiettivi che esse si prefiggono di raggiungere per arrivare alla guarigione.

Gli obbiettivi in successione sono:

Considerare come presumibilmente falsa l’esperienza immediata portata dal paziente; è solo una traccia da seguire e interpretare, con un preciso procedimento logico che permette di escludere la parte falsa dell’ esperienza comunicata;

Il procedimento logico da seguire per riconoscere la parte vera dell’ esperienza e così distinguerla dalla falsa, è quello che Marhaba ha chiamato ‘ della verosimiglianza precostituita’: sono veri solo i dati esperienziali spiegabili con principi teorici conosciuti;

Riunire e attribuire i dati, stabiliti come veri, a una delle categorie diagnostiche che la psicopatologia e la psichiatria forniscono; il disagio di un soggetto viene così assegnato a una classe diagnostica che contiene disagi molto simili;

Far scomparire dal modo di essere del soggetto quei tratti comportamentali, affettivi, emozionali o ideativi che hanno permesso la diagnosi: togliere ‘i sintomi’ e ottenere in tal modo la guarigione.

I quattro obbiettivi, appena

illustrati, disegnanoun

percorso che legittima il sospetto di un

utilizzo della repressione nei cardini

terapeutici delle psicoterapie non

fenomenomogiche. C’è da chiarire che

il termine repressione è qui inteso

in senso proprio, dalla sua derivazione

latina: impedire di avanzare,

far retrocedere, trattenere.

Ora consideriamo, attraverso esempi clinici, gli obbiettivi descritti prima e perseguiti dalle psicoterapie non fenomenologiche.

Per il 1° e 2° obbiettivo - la divisione dell’ esperienza in una parte vera e una parte falsa - prendiamo a modello il D.S.M., un altare del mediatismo logico, e analizziamo un criterio indispensabile per diagnosticare la bulimia: un soggetto può definirsi bulimico se, oltre ad altre condizioni, assume compulsivamente smoderate quantità di cibo; quantità oggettivamente eccessive per la sua alimentazione.

Chi si occupa di bulimia sa bene che un soggetto può vivere una dimensione esistenziale bulimica anche assumendo quantità moderate o addirittura minime di cibo. L’aspetto decisivo non è la quantità , elemento oggettivo, ma il vissuto che segue l’atto compulsivo del mangiare: il senso di colpa, che non è certo un dato oggettivo, misurabile, come la quantità di alimento introdotto, ma soggettivo e si basa sull’ assumere come certo ciò che il soggetto comunica e sul fatto che la bulimia non è solo un insieme di sintomi, ma un modo di esistere.

Per il 3° obbiettivo - la definizione diagnostica dell’esistenza di una persona - diciamo che la persona, nella sua specificità ed originalità. nella sua unicità, scompare. Di questa persona rimane solo la parte malata; le altre parti vengono represse. E’ come considerare allo stesso modo tutti gli uomini con occhi verdi, o assimilare senza ulteriori distinzioni, i soggetti con capelli neri.

Per il 4° obbiettivo - quando considerare un soggetto guarito - si eclude, a favore di dati misurabili, come la scomparsa di sintomi, l’aumento dell’efficenza lavorativa o la maggiore integrazione alle regole sociali, ogni altro criterio.

Si prenda, come esemplificazione, un soggetto con umore gravemente depresso, diminuzione della capacità produttiva sul lavoro e compromissione delle relazioni sociali e familiari. Nell’ analisi della sua esistenza, si evidenzia che egli ha perso la capacità di dare un senso alla vita e che lavora 8 ore al giorno all’esecuzione di un compito ripetitivo; si evidenzia ancora che il soggetto stesso stabilisce un rapporto causa-effetto tra il lavoro che svolge e il disturbo dell’umore.

Quando si potrà parlare di guarigione in una persona ed in una situazione come questa? Quando la stessa vincerà la sua depressione tornando ad un buon funzionamento lavorativo e relazionale? O quando riuscirà a comprendere che può lottare contro le condizioni in cui lavora, anche se un cambiamento di queste condizioni - che sarebbe una modificazione del suo destino - può rimanere una aspirazione mai realizzata?

Gli esempi clinici appena esposti mostrano lucidamente l’azione repressiva agita con il mediatismo logico: il vissuto del soggetto, l’unicità del suo modo di esistere, il suo bisogno di benessere - inteso come avanzamento nella propria esistenza e non solo superamento di sintomi - sono compressi a favore di principi teorici.

Non è il metodo che si adatta all’uomo e diventa modello unico ed irripetibile, valido per la specifica condizione esistenziale di quella persona; un modello che rimette in moto il bisogno di estendersi nel mondo e di trascendersi, andando verso gli altri.

E’ piuttosto una psicoterapia che reprime il soggetto per farlo rientrare, senza contraddizioni logiche e senza sbavature, nelle possibilità di spiegarne la sintomatologia che sono proprie della teoria applicata.

E’ quindi una psicoterapia che impedisce di far avanzare verso obbiettivi diversi da quelli ritenuti pregiudizievolmente validi.

E solleviamo anche il problema dell’azione distruttiva, oltre che repressiva, svolta da alcuni sistemi non fenomenologici, sul piano sociopolitico.

Quei modelli che hanno come scopo l’aumento dell’efficienza, il potenziamento delle capacità comunicative, in quanto strumento di controllo sull’altro e che costruiscono miti sull’uomo esente da imperfezioni, sull’uomo potente e stregone di sé stesso, sono modelli che hanno perso i valori sui quali si dovrebbero costituire le società e non condividono i motivi che spingono gli uomini a formare dei raggruppamenti.

Sembrano essere il prodotto di una sub-cultura, formata da uomini del potere economico e politico, che considera deviante, quindi da rimodellare, ogni soggetto non funzionale al raggiungimento di un progresso tecnologico ed economico esasperato, dove trovano posto false divinità come: la perfezione, l’efficienza, la competizione, la ricchezza; il potere.

Vi è pericolosità sociale in questi modelli, perché nascono da una filosofia e sviluppano una prassi che mette gli uomini in competizione, assumendo come dato fisiologico, lo scontro per affermare la superiorità dell’uno sull’altro.

Proprio in un periodo in cui le collettività hanno bisogno di riappropriarsi di valori che stiano alla base di una convivenza rispettosa dell’esistenza, in tutte le sue espressioni, tutto ciò va contro la serenità sociale.

Utilizzando ora un inserimento per opposti, citiamo quelli che riteniamo essere i punti fondanti l’opera riparativa delle metodologie fenomenologico-esistenziali. Esse riparano - nel senso che favoriscono un rinnovamento dell’esistenza e una riacquisizione della capacità di determinare il proprio destino- soprattutto rispettando la libertà di scelta del soggetto.

A ciò pervengono, osservando alcuni elementi concettuali che possiamo elencare nel modo seguente:

a) esclusione di pregiudizi teorici con i quali stabilire la veridicità o la falsità dell’esperienza. L’esperienza è vera per come si rivela, attraverso la comunicazione, nella relazione;

b) rinuncia a obbiettivi precostituiti ai quali pervenire nell’ azione terapeutica. Lo psicoterapeuta esistenzialista, più che prendere per mano la persona e condurla lungo un percorso già configurato, si fa prendere per mano e sostiene il soggetto nel cammino che questo mostra di voler o poter fare;

c) una filosofia di base che esalta i valori della libertà, del rispetto, dell’ incontro e non dello scontro. Ancora, una filosofia che privilegia la spiritualità piuttosto che i simboli della mondanità;

d) una visione globale dell’uomo, senza scomposizione in parti sane e parti malate; l’uomo è ciò che si rivela essere in quel momento e in quella situazione, nel suo tentativo di modificare continuamente il proprio destino;

e) un concetto di guarigione che prende come termine di confronto la serenità e non la scomparsa dei sintomi.

Certamente, anche nelle psicoterapie fenomenologico-esistenziali vi è il pericolo di scivolamenti repressivi.Questo può accadere soprattutto per quelle che il filosofo tedesco Otto ha chiamato psicoterapie esistenziali teistiche. In esse se l’operatore utilizza in modo implicito od esplicito, il teismo come forma ideale di autrascendenza, come mezzo per liberare il proprio destino dalla morsa delle limitazioni, può dimenticarsi che l’uomo, per avvicinarsi ad essere una presenza libera, ha bisogno di trascendersi qui ed ora, nel mondo della realtà terrena e nella piena libertà di accettare o respingere il divino.

E non possiamo invocare una assoluta neutralità terapeutica che salti il pericolo, perchè, se si può evitare di agire sull’altro con pregiudizi scientifici, non si può escludere totalmente dalla relazione l’insieme di idee e valori che fondano il nostro concetto di esistenza. In altre parole, se si riesce ad evitare di condurre un soggetto verso obbiettivi congruenti con le nostre teorie scientifiche, è impossibile escludere un quantum di direttività orientata verso i principi filosofici con i quali osserviamo le esistenze.

Allora il teismo può tentarci di spostare nel rapporto tra uomo e divino, ciò che andrebbe cercato nel rapporto tra l’uomo e sè stesso e tra un uomo e l’altro uomo.

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