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Intervista al Prof. Antonio Semerari sulla Metacognizione

Intervista al Prof. Antonio Semerari sulla Metacognizione

Prof. Semerari, sono ormai trascorsi molti anni durante i quali lei si è occupato con passione ed in modo innovativo della metacognizione. Il suo Centro di Roma conduce una interessantissima e laboriosa ricerca su questo tema e lei ha scritto anche un bellissimo libro in proposito. Credo che lei sia al momento la persona più indicata in Italia a cui si possa rivolgere la seguente domanda: che cos'è la metacognizione e quali sono le radici culturali di questo concetto?

La metacognizione è l’insieme di abilità che ci permettono di comprendere e di regolare gli stati mentali. La definizione può sembrare complicata ma in realtà stiamo parlando di qualcosa che è presente in ogni momento della nostra vita. Ad esempio, quando lei deve preparare il sito si impegna contemporaneamente in una serie di valutazioni e previsioni che hanno a che fare con il suo stato mentale. Sa, che certe cose l’annoiano, altre l’interessano, sa che l’interesse o la noia influenzano in modo diverso la sua concentrazione e il suo rendimento e così via. E queste conoscenze non rimangono accademiche ma le usa per regolare la sua azione tenendo conto, appunto, delle variazioni che prevede nei suoi stati mentali. Se vuole, l’esempio più famoso di uso di strategie metacognitive è l’episodio di Ulisse con le sirene. Ulisse sa che desidera tornare ad Itaca, sa che desidera udire il canto delle sirene, sa che udire il canto modificherà il suo desiderio di tornare e sa che tale modificazione sarà transitoria. Su questa conoscenza delle variazioni dei suoi stati mentali elaborerà una strategia consapevole e molto semplice: legarsi al palo. Naturalmente noi siamo continuamente impegnati a conoscere non solo i nostri stati mentali ma anche e soprattutto quelli degli altri. Quando lei decide cosa inserire nel sito, tenta di prevedere cosa susciterà l’interesse dei visitatori. Eppure sono persone di cui non sa assolutamente nulla! L’unica cosa a cui si affida è l’innata e straordinaria capacità umana di rappresentare e prevedere gli stati mentali. E’ una facoltà che possiamo paragonare alla vista o all’udito. Ci fa vivere in un mondo di processi mentali così come viviamo in un mondo di luci e suoni.
Mi chiede le radici culturali del concetto: il termine è stato coniato da Flavell nell’ambito degli studi sull’apprendimento col significato letterale di conoscenza della propria cognizione. Col tempo il significato si è esteso a quello di conoscenza, attiva e regolativa, dei processi mentali. Nel momento attuale questo tipo di conoscenza è studiato in ambiti diversi della psicologia evolutiva alla clinica, alle filosofie della mente. Il confluire di tradizioni di ricerca così diverse ha portato ad una certa confusione terminologica ma anche, spero, ad un fecondo intreccio interdisciplinare. Al di là del concetto voglio però ricordare la radice biologica delle funzioni metacognitive. Per dirlo con Baron-Cohen noi nasciamo con l’innata capacità di essere lettori della mente, anche se lo sviluppo di questa capacità può essere favorita o impedita dalle vicende della nostra vita.

Quanto può dare un modello metacognitivo alla psicoterapia? Quale può essere la sua utilità pratica?

Da psicoterapeuta impegnato in questo campo penso, naturalmente, che possa dare moltissimo. La prima cosa che può dare un modello metacognitivo è mostrarci esattamente perché alcuni pazienti sono pazienti difficili. Ogni tipo di psicoterapia richiede al paziente alcune operazioni di tipo metacognitivo. Un paziente deve riferire al terapeuta i suoi stati e processi mentali, deve saper applicare a questi stati e processi ciò che viene detto in terapia e utilizzare questa comprensione per ridurre la sofferenza. Inoltre, per fondare un’alleanza terapeutica, deve costruirsi una rappresentazione della mente del terapeuta, deve capirne le intenzioni, gli atteggiamenti interpersonali.
Un malfunzionamento metacognitivo rende difficili queste operazioni, ma capire il difetto metacognitivo che le ostacola, a mio avviso, apre la strada al trattamento psicoterapeutico del paziente grave.

Esistono delle tipologie di problemi e disturbi che possano particolarmente giovarsi di un trattamento che tenga conto in modo esplicito degli aspetti metacognitivi?

Non ho dubbi sul fatto che i pazienti dello spettro psicotico e i pazienti con disturbi gravi di Personalità presentino tutti difetti nelle funzioni metacognitive. Questi difetti però possono essere di natura diversa in diversi tipi di pazienti. Ad esempio nell’ambito dei Disturbi di Personalità, che è quello da noi più studiato, alcuni (ad esempio: Disturbi Evitante e Narcisista) presentano deficit nelle funzioni di monitoraggio. In altre parole hanno difficoltà a descrivere i pensieri, le emozioni, i desideri e le intenzioni che costituiscono i loro stati mentali. Le loro menti in sostanza risultano opache a loro stessi e agli osservatori esterni. Altri come i Disturbi Borderline e Istrionico sembrano avere un accesso e una capacità di riconoscimento delle singole componenti ma non riescono a costruire un punto di vista integrato. Le loro menti non risultano opache ma caotiche. In sostanza il problema su cui stiamo lavorando è la definizione di profili specifici di malfunzionamento metacognitivo che possono essere presenti in diversi disturbi. Ciascun tipo di profilo crea realtà cliniche diverse e persino diverse reazioni problematiche nel terapeuta. Con i paziente opachi ad esempio tendiamo a disimpegnarci dalla relazione, con quelli caotici ad essere ipercoinvolti. Non voglio certo spiegare tutta la patologia e la psicoterapia in termini metacognitivi, ma con questo tipo di pazienti ritengo che la valutazione dello specifico deficit e l’intervento mirato a ridurlo migliorerà notevolmente l’efficacia dei trattamenti.

Quando conosceremo i risultati della ricerca sulla metacognizione? Può anticiparci qualche riflessione?

Il nostro programma di ricerca ha un’impostazione particolare. Suddividiamo l’attività metacognitiva in sottofunzioni: funzioni di monitoraggio, funzioni di integrazione, funzioni di padroneggiamento ecc. Registriamo le psicoterapie e valutiamo separatamente sui trascritti delle sedute l’andamento di ciascuna singola sottofunzione nel tempo. In questo modo cerchiamo:

  • di dimostrare l’esistenza di profili diversi e specifici in diversi gruppi di pazienti;
  • di descrivere i diversi profili nei diversi disturbi;
  • di individuare i tipi di intervento terapeutico che più incidono positivamente sulle funzioni metacognitive.

Il primo punto, l’esistenza dei diversi profili, riteniamo di averlo già dimostrato. Abbiamo presentato i risultati al recente congresso di Parigi sui Disturbi di Personalità e alcuni articoli sono in attesa del giudizio dei referee di riviste internazionali. Naturalmente il secondo obiettivo, l’individuazione dei diversi profili di malfunzionamento nei diversi disturbi, non può essere raggiunto da un unico gruppo di ricerca. Su questo punto, affinché i dati possano essere considerati solidi, occorre la convergenza di risultati di gruppi indipendenti. Il nostro contributo al momento è che, nel nostro campione, i Disturbi di Personalità sembrano suddivisibili in tre profili fondamentali: quelli in cui prevale il difetto di monitoraggio, le menti opache per intendersi; quelli in cui prevale il difetto di integrazione, le menti caotiche; e quelli in cui prevale la difficoltà a differenziare tra fantasia, rappresentazione e realtà, noi le chiamiamo le menti autarchiche. In alcuni casi i difetti si sommano, in altri alcune funzioni sono conservate o addirittura ipertrofizzate per compensare il difetto di altre.
Per quanto riguarda il tipo di interventi efficaci nel migliorare le funzioni metacognitive, studi su casi singoli ci suggeriscono che essi riguardano principalmente la regolazione della relazione. Ad esempio quando con forme opportune di self-disclosure il terapeuta suggerisce che alcuni aspetti dell’esperienza del paziente sono condivisi o condivisibili dal terapeuta si assiste spesso ad un miglioramento metacognitivo. E’ come se la comprensione dell’aspetto condiviso rappresentasse un punto sopraelevato da cui poter esplorare meglio il proprio panorama mentale complessivo.
Utili sembrano anche le spiegazioni fornite al paziente sul funzionamento metacognitivo, nonché alcune tecniche più specifiche su cui sarebbe troppo lungo soffermarsi. Esempi di questo tipo di interventi si trovano nel libro da lei citato. E’ interessante, a questo proposito, notare che i diversi deficit si differenziano anche nei rispettivi andamenti. I deficit di monitoraggio, ad esempio, migliorano in modo lento e progressivo, i deficit di integrazione presentano variazioni drammatiche tra improvvisi miglioramenti e altrettanto improvvisi peggioramenti. A questa analisi qualitativa si è aggiunto il tentativo di operazionalizzare l’analisi degli interventi per arrivare ad una valutazione quantitativa. Individuate le tipologie di interventi efficaci sulla metacognizione in modo, per così dire, naturalistico il passo successivo sarà la stesura di un manuale di trattamento e l’avvio di studi controllati d’efficacia. Come vede l’ambizione non manca. Speriamo ci basti la vita.