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Professioni sanitarie ed obbligo di referto

La denuncia di fatti penalmente rilevanti non è solo affidata alla sensibilità ed alla discrezionalità delle persone ma costituisce, soprattutto per alcune categorie professionali, un vero e proprio obbligo giuridico sanzionato penalmente.

Con riferimento specifico alle professioni sanitarie occorre evidenziare che secondo le vigenti disposizioni penali, chi le esercita può rivestire la qualità di incaricato di pubblico servizio (quando si trova nelle condizioni di cui all’art. 358 c.p.) o quella di pubblico ufficiale ( nei casi di cui all’art. 357 c.p.).

Da tali qualifiche derivano precise conseguenze, rilevanti sotto il profilo penale dal momento che tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia, ed in particolare contro l’attività giudiziaria, sono previsti i reati di :
• Art. 361 c.p. - Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale;
• Art. 365 c.p. - Omissione di referto.

Si ha omissione di denuncia quando un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio omette o ritarda di denunciare all’autorità giudiziaria, o ad altra che a quella abbia l’obbligo di riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni.

E’ ravvisata invece l’omissione di referto quando un soggetto, libero professionista, avendo nell’esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d’ufficio, omette o ritarda di riferire all’Autorità giudiziaria.

Il reato di cui all’art. 365 c.p. (omissione di referto) è reato di pericolo e non di danno, onde l’interesse pubblico tutelato dalla norma, cioè che l’autorità giudiziaria sia rapidamente informata di fatti costituenti reato perseguibili di ufficio, è offeso dalla sola omissione, indipendentemente dalle conseguenze che siano potute derivare. (Cass. 7-12-57 Policicchio, Cass. 20-12-68 n.1836; Cass. 19-3-98 n.3447).

Riassumendo: un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio e anche un libero professionista esercente professione sanitaria, hanno rispettivamente un obbligo di denuncia (rapporto) o di referto in tutti i casi in cui esercitando la propria prestazione professionale individuino la ravvisabilità di una notizia di reato perseguibile d’ufficio.

Ma che differenza c’è tra “rapporto” e “referto”?
Il rapporto è l'atto col quale il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio denuncia all'autorità giudiziaria un reato di cui abbia avuto notizia nell'esercizio o a causa delle sue funzioni o del servizio. Esso è obbligatorio per tutti i reati perseguibili d’ufficio (delitti o contravvenzioni) - art. 361 e art. 362 c.p. - ed è un atto che fa fede sino a prova contraria. Al rapporto sono tenuti obbligatoriamente tutti gli esercenti una professione con qualifica di pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio.
Il referto invece è l'atto col quale l'esercente una professione sanitaria riferisce all'autorità giudiziaria di avere prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto perseguibile d'ufficio. Il referto riguarda specificamente i sanitari liberi professionisti e prevede l'esimente speciale dell’esposizione a procedimento penale della persona assistita, non contemplata per il rapporto. Esso è obbligatorio per i reati (esclusivamente delitti) perseguibili d’ufficio, ma solo quando l’esercente abbia effettuato una prestazione personale in termini di assistenza (attività diagnostico-terapeutica) o d'opera (attività certificatoria). Spetta al sanitario accertare se il caso che ha richiesto l'intervento professionale rivesta i caratteri di un delitto perseguibile d'ufficio o meno. Il referto a differenza del rapporto ha natura puramente informativa.

Con riferimento specifico all’obbligo di denuncia (o rapporto) occorre fornire una precisa definizione di “pubblico ufficiale” o “incaricato di pubblico servizio”.

L’art. 357 del codice penale definisce, in generale, pubblico ufficiale colui che esercita una pubblica funzione giudiziaria, legislativa o amministrativa”.
Rispetto alla professione sanitaria, la giurisprudenza ha riconosciuto la qualifica di pubblici ufficiali a :

a) Sanitario che presta opera libero-professionale, in virtù di un rapporto privatistico per una casa di cura convenzionata con il servizio sanitario nazionale;
b) Componenti del consiglio di amministrazione di un ente ospedaliero nelle materie di diritto pubblico;
c) Sanitario di guardia di un ambulatorio ASL
d) Sanitario convenzionato o dipendente del SSN
e) Sanitario preposto dalla pubblica amministrazione a verificare l’effettiva esistenza della malattia del dipendente
f) Sanitario esercente la professione su incarico temporaneo da parte di una pubblica amministrazione (ad esempio uns scuola pubblica) senza poteri di certificazione;
g) Responsabile dell’ufficio sanitario di una unità sanitaria locale.

Si definisce “operatore incaricato di pubblico servizio” colui che a qualunque titolo presta un pubblico servizio, fatta esclusione per le prestazioni d’opera meramente materiali. E’ riconosciuto tale ad esempio il farmacista.
Nell’ambito sanitario e dei servizi sociali, complessivamente intesi, sono “operatori incaricati di pubblico servizio” tutti i liberi professionisti che operano privatamente o che operano nell’ambito delle strutture pubbliche ma con contratti libero-professionali o in convenzione).

I sanitari che svolgono attività “intra moenia” (attivitá privata in struttura pubblica) non sono pubblici ufficiali né incaricati di pubblico servizio.

Con riferimento specifico all’obbligo di referto, occorre chiarire precisamente, inoltre, quali siano gli “esercenti le professioni sanitarie”.

L’art. 99 del T.U. delle Leggi Sanitarie include il medico, il chirurgo, l’infermiere, l’assistente sanitario, il veterinario, l’ostetrica, l’odontoiatra, il farmacista, ecc.
A questo punto è opportuno chiedersi se la figura professionale dello psicologo rientri o meno nella categoria di “esercenti le professioni sanitarie”, visto che non è menzionata nel suddetto articolo.
La dottrina, rispetto a ciò, non è univoca.
Alcuni ritengono che solo lo svolgimento di attività psicoterapeutica configuri l’esercizio di una professione sanitaria (E. Calvi., G. Gulotta e coll., Il codice deontologico degli psicologi, Milano 1999, pag.104).
Altri sollevano il dubbio pure con riferimento allo psicoterapeuta ed allo psicologo clinico (M. Colombari, F. Frati, F.P. Colliva e F. Gualandi, L’obbligo di denuncia nella legislazione e nel Codice Deontologico degli psicologi italiani, in Bollettino Ordine Emilia-Romagna; Frati F., Il segreto professionale..., 2005, dal sito web www.cespes.re.it ).
Vi é invece chi afferma, senza adombrare dubbi in proposito, che la professione di psicologo rientra certamente tra quelle sanitarie (L. Mortati, Obbligo di referto, considerazioni medico-legali, dal sito web www.eurom.it ; A. Cucino, La disciplina del segreto professionale per gli psicologi, in Notiziario Ord. Psicol. Lazio, 1-2, 2005, pag.46 e 49; A. De Sensi Frontera, Lo psicologo e il segreto professionale, Lamezia Terme, 2004, pag.20).
Quest’ultima tesi sembrerebbe la più corretta infatti a sostegno della stessa soccorrono diversi elementi, sia sotto il profilo normativo, che sotto il profilo tecnico-scientifico.
Quanto all’aspetto normativo, non si può attribuire peso determinante al T.U. delle Leggi Sanitarie - che come si è detto non elenca gli psicologi tra gli esercenti professioni sanitarie - perché trattasi di un testo risalente agli anni trenta e pertanto redatto in un periodo storico in cui la figura professionale dello psicologo non possedeva una specifica identità giuridica (basti pensare che la legge istitutiva della professione di psicologo risale al 1989, L. n.56/89 appunto).
In ogni caso detto T.U. è stato ampiamente superato dal sopravvenuto coacervo normativo e giurisprudenziale che include lo psicologo nel novero dei professionisti sanitari (v., ad esempio: (a) le disposizioni di legge sul rapporto di lavoro alle dipendenze del S.S.N. ed i contratti collettivi dell’Area dirigenziale del S.S.N., che collocano gli psicologi nel ruolo sanitario per i fini istituzionali di tutela della salute pubblica ex art.32 della Costituzione; (b) l’elenco delle attività, anche sanitarie, riservate alla professione di psicologo contenuto nell’art.1 della legge istitutiva dell’Ordine; (c) le disposizioni tributarie sulle prestazioni esenti dall’I.V.A.; (d) la recente sottoposizione dell’Ordine alla vigilanza del Ministero della Salute, piuttosto che della Giustizia com’era in origine; (e) la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione citata da A. Cucino in Notiziario Ord. Psicol. Lazio, 1-2, 2005, pag.49, cit.).
Quanto detto si ritiene non lasci dubbi rispetto all’inclusione degli psicologi, a tutti gli effetti, nella categoria di “esercenti le professioni sanitarie”.

Tornando all’obbligo di referto, ancora una precisazione si rende necessaria: poiché esso ricorre soltanto per i delitti perseguibili di ufficio (e non per quelli procedibili a querela di parte) appare utile evidenziare nel dettaglio quali questi siano:
1) Delitti contro la vita e l'incolumità individuale (artt. 575 – 593 c.p.) : l’omicidio volontario, colposo, preterintenzionale (art. 575, 584, 589 c.p.), l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), la morte conseguente ad altro delitto (art. 586 c.p.), l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.) e l’infanticidio (art. 578 c.p.). La lesione personale volontaria (art. 582) e che determini uno stato di malattia superiore a 20 giorni (sono dunque escluse le lesioni lievissime e la percossa); la lesione personale colposa grave o gravissima solo quando avvenga in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale. (di seguito specificati)

2) Delitti contro l'incolumità pubblica (artt. 422 – 452 c.p.): tutte le attività pericolose per la salute pubblica che espongano al pericolo di epidemie, di intossicazioni e, in genere, di danni da alimenti, bevande o medicinali guasti.

3) Delitti sessuali (art.609 bis c.p.): la congiunzione carnale abusiva di pubblico ufficiale, gli atti osceni e l'incesto sono sempre perseguibili d'ufficio; inoltre la violenza carnale, gli atti di libidine violenti, il ratto, la seduzione e la corruzione di minorenni nei casi previsti dalla legge (di seguito specificati).

4) Delitti di aborto (art. 545 c.p.): l'aborto colposo, l'aborto conseguente a lesione personale dolosa, l'aborto di donna non consenziente, l'aborto di minore o di interdetta, l'aborto seguito da morte della donna, il tentativo di aborto, il parto prematuro colposo e l'acceleramento preterintenzionale del parto.

5) Delitti di manomissione di cadavere (art. 412 c.p.): vilipendio, distruzione, occultamento, uso illegittimo di cadavere.

6) Delitti contro la libertà individuale (artt. 600 – 623 bis c.p.) : il sequestro di persona. la violenza privata, la minaccia aggravata e l'incapacità procurata mediante violenza.

7) Delitti contro la famiglia (artt. 556 – 574 c.p.) : l'abuso dei mezzi di correzione o di disciplina e i maltrattamenti in famiglia (di seguito specificati).

Dott.ssa Federica Letizia