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Un esempio di analisi psicologica del testo e l'importanza del Perdono

Un esempio di analisi psicologica del testo applicata agli scritti degli evangelisti.
L’importanza del Perdono

Ognuno di noi, in ciò che scrive esprime dei significati che vanno oltre il significato derivabile dal vocabolario, dalla sintassi e dall'ambiente culturale. Infatti, una stessa notizia data a dieci giornalisti sarà esposta in modi diversi. C'è pertanto un'impronta personale in ciò che si scrive da cui sono ricavabili informazioni "altre" su contenuti emozionali e inconsci dell'autore, una sorta di "Linguaggio Non Verbale del Testo" che, come il linguaggio non verbale della lingua parlata (postura, mimica ecc.). rivela contenuti profondi e difficilmente dissimulabili che possono non coincidere con l'informazione esplicita.
L'opera "Il vangelo oltre le parole" è un esempio di analisi psicologica del testo applicata agli scritti degli evangelisti.
Si riporta il brano sulle Nozze di Cana, da cui è nata l'idea di scrivere l'opera e due brani sul perdono.

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NOZZE di CANA


pag.22-25

.....Se la vita e la figura di Maria sono quindi strettamente e indissolubilmente legate al Figlio e sono un mistero per vari aspetti, c’è un episodio nel Vangelo che, se possibile, accresce ancora di più l’importanza di questa donna e il mistero che la avvolge: l’episodio delle nozze di Cana.
Papa Giovanni Paolo II deve averne colto l’assoluta rilevanza se lo ha inserito nella recita del S. Rosario tra i misteri della Luce. Vale la pena riportare il brano per intero (Gv. 2, 1-11) dal Vangelo di Giovanni, il discepolo tra l’altro, che divenne il figlio acquisito di Maria ai piedi della croce.

1 E tre giorni appresso, si fecero delle nozze in Cana di Galilea, e la madre di Gesù era quivi. 2 Or anche Gesù, co’ suoi discepoli, fu chiamato alle nozze. 3 Ed essendo venuto meno il vino, la madre di Gesù gli disse: Non hanno più vino. 4 Gesù le disse: Che v’è fra te e me, o donna? l’ora mia non è ancora venuta. 5 Sua madre disse ai servitori: Fate tutto ciò ch’egli vi dirà. 6 Or quivi erano sei pile di pietra, poste secondo l’usanza della purificazion dei Giudei, le quali contenevano due, o tre misure grandi per una. 7 Gesù disse loro: Empiete d’acqua le pile. Ed essi le empierono fino in cima. 8 Poi egli disse loro: Attingete ora, e portatelo allo scalco. Ed essi gliel portarono. 9 E come lo scalco ebbe assaggiata l’acqua ch’era stata fatta vino (or egli non sapeva onde quel vino si fosse, ma ben lo sapevano i servitori che aveano attinta l’acqua), chiamò lo sposo, e gli disse: 10 Ogni uomo presenta prima il buon vino; e dopo che si è bevuto largamente, il men buono; ma tu hai serbato il buon vino infino ad ora. 11 Gesù fece questo principio di miracoli in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria; e i suoi discepoli credettero in lui.

In questo brano sono centrali lo scambio verbale tra Gesù e Maria e il successivo comportamento di quest’ultima. Nel rivolgersi a Gesù, Maria lo informa che è sopravvenuto un problema che rischia di rovinare il matrimonio: il vino per i commensali è terminato; ella così implicitamente sollecita il Figlio, se può, a fare qualcosa per risolvere il detto problema. La risposta di Gesù è distaccata e quasi glaciale. Egli anzitutto non chiama Maria “madre”, ma “donna”, termine che rimanda soprattutto al passo della Genesi 3, 15-20, laddove Dio, rivolgendosi al serpente, preconizza: “porrò inimicizia tra te e la Donna, tra la tua stirpe e la stirpe di lei…”. Gesù così riconosce il ruolo salvifico di Maria, ma nello stesso tempo come un figlio ormai cresciuto, sembra rivendicare la sua autonomia nelle scelte, nei tempi e modi delle sue azioni. La frase successiva “non è ancora giunta la mia ora” è probabilmente esplicitabile come “non mi è arrivato alcun segno che io debba iniziare a manifestarmi più apertamente agli uomini”.
La risposta comportamentale e verbale di Maria ha dello straordinario. Ciò che il Figlio le aveva appena detto avrebbe probabilmente gelato e frenato chiunque, non lei che invece si direbbe non ne è minimamente scalfita. Inoltre ella, ordinando ai servi di compiere ciò che il Figlio avrebbe detto, mostra un’incredibile sicurezza su ciò che sarebbe accaduto; è come assolutamente certa che Gesù si sarebbe adoperato per il bene, che avrebbe aiutato gli sposi.
L’aspetto forse più importante comunque della risposta di Maria è il suo significato in riferimento all’affermazione di Gesù: “non è ancora giunta la mia ora”. Con il suo comportamento Maria indirettamente dice al figlio che la sua ora è giunta, che è tempo che egli inizi la sua missione e si manifesti al mondo. È Maria che spinge il Figlio nel mondo e, nel far questo, assume un ruolo che nella famiglia è solitamente rivestito dal padre. Teorie psicologiche e pratica clinica indicano infatti che solitamente o comunque più frequentemente la madre è la figura che più tende a trattenere nell’ambito familiare i figli, a volte contribuendo a impedirne patologicamente il fisiologico “svincolo” verso l’autonomia, l’indipendenza economica e la realizzazione socio-affettiva; il padre al contrario è solitamente più pronto a favorire e promuovere il percorso del figlio verso l’autonomia.
L’operato di Maria appare anche quel “segno” che Gesù stava aspettando, quel segno che gli facesse capire che i tempi della sua manifestazione erano maturi. Ciò mi ricorda anche l’enorme importanza che a volte riveste il consenso dei genitori riguardo alle scelte importanti dei figli nel loro percorso verso l’autonomia. Accade non infrequentemente che questo percorso si blocchi, con inevitabili gravissime conseguenze, proprio per l’enorme desiderio/bisogno da parte del figlio di questo consenso negato. Ciò può avvenire ad esempio se il legame affettivo è troppo stretto e uno dei due protagonisti abnormemente dipendente affettivamente dall’altro. Non è probabilmente questo il caso di Maria e Gesù, considerata la “durezza” della risposta di quest’ultimo a sua madre, la qual cosa denota una discreta e più che giusta “distanza affettiva”. Gesù d’altra parte si era già presumibilmente allontanato dalla sua famiglia di origine: aveva dimorato quaranta giorni nel deserto, aveva chiamato a sé i primi discepoli e probabilmente viveva assieme a loro.
Ad ogni modo, Gesù praticamente “obbedisce” all’invito della madre ad agire, è pronto nel cogliere il momento, l’impulso, il segno dei tempi.
Chi era questa donna così potente da sapere ciò che doveva avvenire e da decidere l’effettivo avvio della missione del figlio nel mondo? Quanto grandi il suo potere e la sua conoscenza dei piani di Dio?
Per il piano di salvezza di Dio sono stati essenziali un uomo e una donna e Maria non appare essere solo lo strumento per la nascita del Cristo, ma una donna con potere decisionale e attiva promotrice della missione di quest’ultimo.

Il “BENE” DEL PERDONO
Marco 11, 20-25

20 E la mattina seguente, come essi passavano presso del fico, lo videro seccato fin dalle radici. 21 E Pietro, ricordatosi, gli disse: Maestro, ecco, il fico che tu maledicesti è seccato. 22 E Gesù, rispondendo, disse loro: Abbiate fede in Dio. 23 Perciocchè io vi dico in verità, che chi avrà detto a questo monte: Togliti di là, e gettati nel mare; e non avrà dubitato nel cuor suo, anzi avrà creduto che ciò ch'egli dice avverrà; ciò ch'egli avrà detto gli sarà fatto. 24 Perciò io vi dico: Tutte le cose che voi domanderete pregando, crediate che le riceverete, e voi le otterrete. 25 E quando vi presenterete per fare orazione, se avete qualche cosa contro ad alcuno, rimettetegliela; acciocchè il Padre vostro ch'è ne' cieli vi rimetta anch'egli i vostri falli.

Questo piccolo brano ha un antecedente nei versetti di Matteo 11, 11-14. In essi si narra che Gesù, nel recarsi a Gerusalemme in prossimità di quella Pasqua che avrebbe segnato la sua passione, cercò per sfamarsi dei frutti in un albero di fichi, nonostante non fosse la stagione per trovarli. Non avendoli trovati inviò all’albero una sorta di maledizione dicendogli: “Nessuno possa mai più mangiare i tuoi frutti”. Il comportamento di Gesù appare incomprensibile: aveva cercato infatti quello che era praticamente impossibile trovare e aveva per questo inviato una maledizione che i suoi discepoli avevano udito. Una spiegazione possibile a questo comportamento è che una natura che non sia al servizio di Dio (e il fico non aveva offerto frutti al Figlio di Dio), non merita di vivere.
Fatto sta che l’indomani il fico era completamente seccato e i discepoli si stupirono di un tale prodigio, tanto più che era un prodigio “in negativo”; mai probabilmente avevano visto il loro Maestro compiere atti o miracoli che fossero “in negativo”. Pietro, il più audace o il più estroverso esplicita il loro stupore.
Nella sua risposta Gesù nei versetti 22-24 ribadisce l’onnipotenza di Dio: tutto è possibile a Dio e al suo Figlio prediletto e non solo, qualunque cosa chiedano gli uomini, purchè sia buona e giusta, sarà loro accordata. Come se credere in un futuro di bene e chiederlo porterà alla sua realizzazione. Dio infatti non può essere contro il Bene e quindi lo concederà.
Che il Bene sia essenziale in queste convinzioni/richieste degli uomini viene confermato dal successivo versetto 25. Esso infatti invita ad essere in sintonia col Padre e perciò ad essere buoni, a volere il bene in tutte le sue forme e non fare del male neppure col pensiero, neppure col sentimento. Gesù invita ad eliminare ogni pensiero cattivo “contro” qualcuno, ogni rancore e ad essere “Bene” noi stessi; allora il Padre ricolmerà gli uomini della sua grazia e della sua potenza.
Il termine “rancore” proviene dal latino “rancorem” cioè “rancidità” e quindi riporta a qualcosa di andato a male, cattivo, deteriorato, immangiabile. Un sentimento negativo che come tale con ogni probabilità danneggia chi lo prova più del soggetto contro cui è diretto. Oltre alla mancanza di serenità e pace interiore infatti, occorre considerare che è illusorio pensare di poter scindere totalmente i pensieri dalle opere: siamo un tutt’uno e se abbiamo qualcosa “contro” qualcuno è molto probabile o sicuro che alla prima occasione utile trasformeremo, magari involontariamente e inconsciamente, il sentimento in azione negativa con tutte le conseguenze rovinose per noi e gli altri che fare del male al prossimo comporta. Infatti il male fatto ad altri inevitabilmente danneggia anche l’ambiente sociale circostante e quindi anche e spesso in primis l’autore del danno iniziale, con una serie di ricadute negative a cascata per cui si rischia di innescare una spirale negativa che sembrerebbe opposta a quella descritta dal logico Elster e di cui si è parlato a proposito del “sano egoismo” (v. brano Mt 20, 1-16).
Il male come il bene appare interattivo: l’autore del male fatto ad altri corre come minimo il rischio di soffrire di rimorsi e pressoché inevitabilmente di personali ripercussioni negative che possono essere anche molto gravi.
Questo brano mostra come l’aver qualcosa “contro” qualcuno, presumibilmente in modo consapevole e deliberato, si configuri come un “peccato di pensiero” che, come tale non va sottovalutato. Esso, infatti, alla stregua e non meno di altri tipi di mancanze, può comportare gravi conseguenze, in termini di danni arrecati a sé e agli altri.
Aggiungerei che quel minimo di libertà che abbiamo risiede forse proprio nella “volontà”. Possiamo “voler” perdonare pur non sapendo se ci riusciremo davvero, ma presumibilmente quel “voler” è tutto ciò che ci serve e possiamo fare per riuscirci al meglio e vivere meglio.

IL PERDONO

Luca 17, 1-4

1 OR egli disse a' suoi discepoli: Egli è impossibile che non avvengano scandali; ma, guai a colui per cui avvengono! 2 Meglio per lui sarebbe che una macina d'asino gli fosse appiccata al collo, e che fosse gettato nel mare, che di scandalezzare uno di questi piccoli. 3 Prendete guardia a voi. Ora, se il tuo fratello ha peccato contro a te, riprendilo; e se si pente, perdonagli. 4 E benchè sette volte il dì pecchi contro a te, se sette volte il dì ritorna a te, dicendo: Io mi pento, perdonagli.

Questo piccolo brano appare denso di significati che ruotano attorno alla presenza del male e/o del peccato nel mondo.

All’inizio Gesù sembra dire che è impossibile separare il bene dal male in questo mondo e quindi eliminare il male o evitarlo; esso è comunque un disastro per chi lo pratica, lo causa e dà ad esso la possibilità di moltiplicarsi nella società.

Al versetto 3 Gesù esorta poi a non sbagliare (“state attenti a voi stessi” o “prendete guardia a voi” della Diodati) e successivamente indica comunque il rimedio per gli inevitabili errori: un rimedio interattivo fatto di pentimento e perdono.

La riparazione dell’errore (peccato) appare come la ricostituzione di un’unità perduta, evidentemente di una concordia, unità di intenti o amore come si voglia chiamare, tra chi ha sbagliato e chi è rimasto vittima dell’errore.

Infatti il primo comando che Gesù dà nel caso che qualcuno commetta una colpa, non è quello di perdonargli, ma di riprenderlo, rimproverarlo (vers.3). Ciò significa che chi ha subito il danno ha anzitutto il dovere di far capire all’altro l’entità e la qualità dell’errore commesso (tante volte non se ne fosse accorto, si potrebbe aggiungere) e lo scopo di quest’azione non è solo evidentemente quello di informare, ma di farlo in vista della ricostituzione di un’unità, di un rapporto interrotti.

Se l’altro è desideroso di ricostituire questa unità e, tramite il pentimento, prova dispiacere per il danno commesso e desiderio di riparare quest’ultimo, allora la vittima dell’errore deve accettare di ricostituire l’unità.

E ciò vale quand’anche il danno sia notevole (sette volte al giorno); se l’altro è dispiaciuto di ciò che ha commesso, vuole riparare e ricostituire l’unità, allora dobbiamo cercare e accettare di ricostituirla.
Dalla combinazione di questo brano e del precedente sul Perdono scaturisce che il perdono evangelico deve anche essere "di cuore", come è detto altrove (Mt, 21-35 "...se non perdonerete di cuore...). Infatti non può essere altro che di tal natura un perdono che serva a ricostituire un'unità, una concordia. Il vangelo pertanto va oltre un criterio utilitaristico ed egoistico del perdono quale quello che ho illustrato nella parte finale del commento precedente.
Possiamo anche chiederci come mai Gesù riusci a pregare il Padre per i suoi stessi carnefici e quindi a non serbare rancore neppure in quella circostanza estrema.
Probabilmente perchè non aveva mai sbagliato o, detto in altro modo, peccato.
Se non abbiamo nulla da rimproverarci allora tutto ci scivola addosso più facilmente e probabilmente riusciamo a non odiare. Questa considerazione dovrebbe farci riflettere su quanto negli stati di rancore proiettiamo sugli altri parte delle responsabilità che sono invece nostre nel torto ricevuto, quanto non riusciamo a riconoscere i nostri errori e probabilmente a perdonarli a noi stessi.
Per perdonare allora un prerequisito sarebbe accettare la responsabilità dei nostri errori e probabilmente perdonarli; non potremo mai sapere con certezza se gli altri hanno sbagliato con la consapevolezza di sbagliare o meno, mentre conosciamo la nostra coscienza. Secondo questa concezione, nell’odio attribuiamo agli altri anche quella parte di responsabilità nell’errore che ci compete, nel perdono, riconoscendola e perdonandola a noi stessi, riusciamo a perdonare i possibili (non conoscibili perchè inconoscibile appieno la coscienza altrui) errori degli altri".
Serbare rancore poi rischia di essere una cosa sterile e dannosa principalmente a noi stessi anche perché tra l’altro, focalizzandoci sul passato, assorbe energie e blocca la progettualità e l’evoluzione.

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