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Il bambino psicosomatico il contesto familiare e linguaggio del corpo

(OSTIA LIDO, 8 Febbraio 2011)

Da sempre è presente una dicotomia nello studio delle branche mediche e scientifiche tra mente-corpo . Anche se le ultime teorie cercano di unificare i due aspetti e di studiare le forti interconnessioni tra i disturbi della mente e quelli del corpo, ancora molti specialisti non riescono ad avere un pensiero uniforme e collaborativo tra i diversi settori della medicina e della psicologia.

Per antonomasia il disturbo che mette in evidenza questa esigenza di unificazione è quello psicosomatico; è caratterizzato da quei sintomi fisici che esprimono una condizione di malessere psichico e di disagio emotivo che il soggetto non riesce a verbalizzare ed esternare se non attraverso il corpo e che possono diventare molto invalidanti sfociando, per esempio, in forti attacchi di panico, tachicardia ed ansia diffusa.

E’dunque importante dare voce al linguaggio del sintomo.

Nell’adulto spesso il disagio psicosomatico è più difficile da affrontare perché può essersi cronicizzato. E’ possibile che in un passato anche recente si sia manifestato in altro modo, ad esempio con piccoli stati di agitazione e solo successivamente si sia cronicizzato a tal punto da diventare un forte disagio del corpo, che la mente deve cogliere per ri-iniziare a funzionare in modo armonioso.

Nel bambino invece tale meccanismo “sintomo–corpo–impossibilità di comunicare” non è già così rigidamente connesso. Il linguaggio del corpo è ancora facilmente decifrabile ed il messaggio del disturbo psicosomatico è facilmente interpretabile. Si farà un esempio per rendere più chiaro il concetto.

Aldo ha 10 anni. E’ il terzo figlio di genitori molto belli, prestanti, snelli, perfetti. Le sorelle, di sei e otto più grandi, sono sempre state delle figlie deliziose, educate, con semplicità e naturalezza eleganti. Aldo è un bambino che non ama studiare, lo fa con fatica e per accontentare soprattutto la madre, laureata in scienze biologiche, ricercatrice in carriera. Non ha uno spiccato interesse per nulla in particolare. Gioca con i videogiochi ma non lo fanno impazzire. Fare sport per lui è una tortura. Ha sempre mangiato tanto, in maniera anche compulsava, di nascosto. La mamma lo rimprovera in continuazione, il padre con il suo sguardo gli comunica tutta la sua disapprovazione e delusione per questo figlio “senza senso” che, forse, lo fa anche un po’ vergognare. Arriva in terapia con un sintomo particolare. Appena si avvicina al cibo sente nausea, a volta vomita. Sta dimagrendo velocemente, è diventato anemico, gli stanno somministrando integratori vari. Cosa sta accadendo, chiede il padre. “E’ possibile che questo figlio ci stia dando tanti problemi? Eppure le sorelle sono state sempre splendide. Perché lui si inventa di tutto per farci stare in pensiero?”

Sta accadendo che Aldo vuole piacere a tutti i costi ai genitori ma anche alle sorelle. Vuole essere alla loro altezza. Dopo tanti anni in cui tutti gli hanno fatto capire di essere il brutto anatroccolo di casa ora vuole essere bello e prestante come loro. Vuole da un canto che si accorgano di lui dall’altro vorrebbe sparire per non destare dispiacere in questa famiglia che, senza di lui, sarebbe perfetta. Il rifiuto inconsapevole del cibo è il suo grido di aiuto e il suo desiderio di non continuare a ferire la famiglia.

Rispetto agli adulti, nel bambino il meccanismo causa-effetto è più diretto. Nel disturbo psicosomatico del bambino quasi sempre è presente in lui un bisogno di prolungare l’attaccamento al padre e alla madre (o anche ai nonni, se figure presenti nella sua vita); ciò può portare, da parte dei genitori con atteggiamenti molto protettivi, a mantenere il sintomo. Spesso il bambino in questo sintomo si sente chiuso, “prigioniero” e se ne vergogna agli occhi dei sui compagni. Inizia a sentirsi diverso in una fase in cui è fondamentale sentirsi e riconoscersi nel gruppo degli amici, inizia a chiudersi e trincerarsi dietro i sintomi che possono diventare sempre più invalidanti. In questo caso è fondamentale il ruolo dei genitori che devono spronare il bambino e dargli fiducia, trasmettergli che può uscire fuori dalla paura e dall’ansia nelle quali è inserito. Devono mandargli il messaggio che ce la può fare, incoraggiarlo nelle sue scelte ed ascoltarlo molto. Può accadere, invece, che i genitori si terrorizzino e si blocchino anche loro, che non riescano a superare il blocco del figlio che diventa così un blocco familiare. Spesso la troppa tolleranza dei genitori verso il sintomo porta a fermare il figlio nello sviluppo della sua autonomia, ad aumentare la dipendenza verso l’ ambiente familiare, attivando in tal modo un circolo vizioso dipendenza figlio- dipendenza genitori e viceversa.

Si evince che il compito della terapia è su più fronti. Innanzitutto il terapeuta deve lavorare con il bambino per far emergere le sue difficoltà e le sue paure, deve lavorare affinchè il bambino impari a parlare non solo attraverso il linguaggio del corpo ma anche con il linguaggio delle parole. Molto spesso è utile utilizzare i disegni del bambino in quanto possono trasmettere le sue emozioni più vere, più profonde. Sanno esprimere ciò che è difficile “tirare fuori” con le parole.

Su un altro fronte il terapeuta deve lavorare con la famiglia e soprattutto con i genitori per poter ridare al bambino la sua giusta età, per poter restituire il senso di fiducia verso se stesso e verso il futuro che soltanto i genitori possono trasmettere al proprio figlio. Spesso i genitori si sentono impotenti di fronte al sintomo ed è importante arrivare a restituire loro la capacità di poter aiutare il proprio bambino.

E’ importante questo lavoro terapeutico bambino-famiglia. Solo così il disagio profondo del bambino può prendere forma evitando che si cronicizzi e che diventi addirittura l’ unica possibilità di comunicazione dell’attuale bambino e del futuro adulto.

a cura dello STUDIO ASSOCIATO DI PSICOLOGIA