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Aspetti emotivi nell'infertilità secondo un approccio Gestalt

Aspetti emotivi nell’infertilità secondo un approccio Gestalt

Sterilità e infertilità

Per sterilità si intende l’impossibilità di concepire. Esiste una sterilità definita primaria, che riguarda una coppia che non ha mai concepito. E una sterilità secondaria relativa a una coppia che ha concepito e che, per un periodo di due anni, non riesce ad avere un’altra gravidanza (Organizzazione Mondiale della Sanità).

La sterilità può essere solo maschile o solo femminile.

Per infertilità e/o ipofertilità si definisce la riduzione della capacità fecondante dell’individuo. (Nel caso femminile, per esempio, si tratta della una condizione in cui la partner riesce ad avere una gravidanza, ma non a portarla a termine; nel caso maschile si indica l’incapacità della coppia a concepire in seguito a una ridotta fertilità dell’uomo).

In un 10-15% dei casi si parla di “sterilità o infertilità idiopatica o inspiegata” e si tratta di coppie per le quali risulta inspiegato, il mancato concepimento (dati SISMER 1998). Su quest ultimo fenomeno si è rivolto l’interesse di alcuni addetti ai lavori nel tentativo di fornire una spiegazione, e al contempo un rimedio, che potesse contribuire a ridurre il sentimento d’angoscia, sperimentato dalle coppie colpite da tale impossibilità. Occorre specificare però che gli studi presenti in letteratura su questo argomento sono dedicati esclusivamente alla donna, che per prima sperimenta l’impossibilità e si rivolge al medico.

Si tratta di una problematica esclusivamente femminile?

In genere è proprio il sesso femminile ad essere più colpito da questa “calamità”, un po’ per retaggi storici, un po’ perché è la donna che vive appieno la maternità, sia in senso fisico che psicologico. Il desiderio di procreare appartiene ad entrambi i sessi, ma la donna appare quella che soffre di più nella situazione di incapacità (Acocella, Sandomenico & Stranieri, 1991).

Inoltre, in una prima fase della procedura, l’uomo si “sgancia” e investe su altri aspetti della propria vita, sforzandosi di diventare vincente ove egli sa di poter riuscire. La donna invece rimane intimamente colpita dal senso di fallimento e di svalutazione di sé e rimane pertanto stabilmente ancorata alla realizzazione di questo bisogno, pena la morte.

Alcuni autori di stampo psicodinamico hanno nel tempo avanzato l’ipotesi di una interdipendenza tra infertilità idiopatica e cause psicologiche della stessa. Tali studi hanno constatato la presenza di due caratteristiche peculiari nelle donne con difficoltà procreative; da una parte la rappresentazione mentale di una forte figura materna e dall’altra la repressione di un sentimento aggressivo provato nei confronti della stessa figura. Il desiderio di maternità li riattiverebbe. Sembrerebbe quindi che, chi ha avuto una facile identificazione con la propria figura materna, conseguirebbe la propria maternità più agevolmente di una donna che ha un rapporto conflittuale (anche solo interiormente) con la propria madre interiorizzata

È importante tuttavia tener presente quanto gli effetti e le cause di sterilità siano talvolta interscambiabili. È possibile infatti che in alcuni casi siano degli stati psicologici ad impedire, o quantomeno, ad ostacolare il concepimento, ma bisogna anche prendere in considerazione l’eventuale possibilità opposta, ovvero il caso in cui la situazione di infertilità comprovata, determina uno stato depressivo e una situazione di crisi, mai sperimentate in precedenza. Attualmente, si stima che i casi di influenza diretta dei conflitti psichici sulla riproduzione siano il 5%; da questo dato si potrebbe ipotizzare che, proprio le reazioni psicologiche all’incapacità di concepire, contribuirebbero in maniera decisiva, al mantenimento del problema e al suo cronicizzarsi (Froggio, 2000).

Analisi fenomenologica

La crisi della sterilità colpisce diverse aree che riportano alla mente l’imperfezione umana, la disfunzionalità e l’imprevedibilità (incontrollabilità) della vita stessa. L’informazione della propria sterilità è dolorosa, traumatizzante, destabilizzante e l’Io spesso non ha la forza di reggere un simile colpo. L’individuo, perciò, è portato a spostare la sua attenzione su altro perché prendere coscienza e gestire questo dolore è troppo annientante e tormentoso.

In una società in cui morte e sofferenza vengono banditi a favore del successo, della capacità di brillare e della grandiosità dell’Io, mostrare dolore e umanità è percepito come disgustoso e questo ha effetti sul senso di appartenenza e sul diritto all’esistenza in quanto essere umano.

Le risposte che gli individui mettono in campo in questa situazione dipendono dalla individualità di ciascuno. La risposta emotiva fa emergere la sensazione di perdita di controllo e, in genere, le strategie difensive messe in campo, per reggere il dolore, sono di evitamento. La risposta cognitiva è rivolta alla soluzione del problema; propende per una azione attiva sull’impossibilità biologica e passa attraverso il riconoscimento “cognitivo” della situazione. Sul piano comportamentale il dolore viene gestito dalla sensazione di controllabilità fornita dall’ iperinvestimento nel percorso medico.

In tutti i casi, emerge come l’essere umano ferito sia legittimamente spinto ad utilizzare forme difensive nel tentativo di preservarsi dal dolore.

Lo shock iniziale

Lo shock è il primo stato attivato quando l’individuo scopre la propria sterilità. È una condizione che si riscontra in tutti i casi di comunicazione di cattiva notizia ed è descritto come la prima fase del lutto: quella di disorientamento, sensazione di irrealtà, confusione ecc.. Lo shock è una emozione che ha a che fare con il cervello rettiliano, con gli aspetti istintuali inscritti nel nostro codice genetico. La funzione sana dello shock è rappresentata dalla capacità di mappare risorse e pericoli del territorio. Si attiva in modo disfunzionale quando il cervello ha in se due informazioni totalmente contrastanti, due complessità che non può integrare insieme (messaggi ambigui, paradossali ecc.).

Si esprime con una diminuzione dello stato di coscienza, una mancanza di comprensione mentale, una sensazione di vuoto, perdita d’orientamento (o doppio orientamento), vertigine, ansia e, talvolta, svenimento.

Ciò che accade è che una informazione totalmente contrastante con il sistema di riferimento dell’individuo manda in crisi tutto il sistema.

È probabile che la catena di informazioni inscritta nella mappa biologica del cervello rettiliano sia: “ogni essere umano può procreare”-“ad ogni uomo e ad ogni donna viene passato il testimone per dare continuità alla specie”; “io sono un essere umano (uomo o donna)” l’informazione contrastante impossibile da processare è “io non procreo” dunque “io non appartengo al genere umano?”, ovvero “la specie con me si esaurisce/muore?”.

Superare lo shock significa giungere all’integrazione delle informazioni ricevute. Occorre guarire la memoria e riscrivere l’esperienza. La guarigione implica inevitabilmente un percorso di consapevolezza di sè e di riconoscimento delle difese.

La mancanza di questo processo, o il non riconoscimento dello stato di shock portano a continue ritraumatizzazione che alimentano lo stato di panico e il senso di autosvalutazione.

L’autosvalutazione femminile e il confronto con il resto del mondo fertile

Ad un certo punto dell’ontogenesi è stato necessario misurare in termini monetari il valore di ogni essere umano. La civiltà patriarcale riuscì a estorcere la “dominanza” alla civiltà matriarcale, che contraddistinse i primi insediamenti umani, utilizzando il concetto di produttività. Ciò ha deprezzato la ricchezza che la donna porta al sistema e ha ridotto il suo potenziale a mera “procreazione”. Ad alcune funzioni prettamente femminili quali, l’empatia, la tenerezza, la capacità di offrire sostegno, l’educazione, la gestione e il contenimento della famiglia non fu possibile dare un valore in termini monetari, pertanto l’unico modo che ella ebbe di venir considerata fu (ed è, tuttora) la sua capacità di fare figli o, in alternativa, il diventare un uomo in termini lavorativi.

Mentre la donna vive l’infertilità come un ennesima perdita di significato della propria esistenza come essere umana, l’uomo sposta l’attenzione su altri territori ove potersi rifare riconquistando il proprio valore, senza doversi gestire l’autosvalutazione.

L’autosvalutazione ha a che fare con il bisogno di conferme e con il bisogno di appartenere. Attraverso il filtro dell’autosvalutazione si vedono gli altri e il mondo intero come più forti, al punto da non potersi confrontare. La caduta di energia che si verifica fa si che l’individuo in autosvalutazione abbandoni il territorio e la competizione.

Nel caso dell’infertilità, l’autosvalutazione che si attiva è probabilmente su due fronti: emotivo e istintuale. Da una parte (a livello del cervello limbico e quindi emotivo) la donna sente di dare un dispiacere alla propria famiglia, sente di essere meno amabile per questa impossibilità, perché non “rende” omaggio ai genitori con un nipote che darà continuità alla specie/famiglia. Dall’altra (sul piano del cervello rettiliano e quindi istintivo) si attiva la competizione con sorelle, cognate, amiche che generano.

Emotivamente vi è un vissuto depressivo, ma la rabbia inespressa sottostante muove verso il bisogno di rivincita. Probabilmente per questo motivo alcune donne investono in modo smisurato sulle procedure di fecondazione assistita, aspettandosi quasi magicamente un risultato certo, nonostante la letteratura e gli studi dichiarino il contrario.

L'invidia

L’emozione che rappresenta il nocciolo centrale della questione “infertilità” è, secondo la mia esperienza, l’invidia.

Tale tema rimane tra i meno esplorati e spesso negato (per paura del giudizio secondo cui non è buono essere invidiosi). Tuttavia se si discrimina tra vissuto e comportamento, la persona riconosce l’innocuità dell’emozione e la accoglie. Vi sono inoltre due sfaccettature di tale emozione: da una parte il problema sollevato rende sensibili al sentimento d’invidia nei confronti delle altre donne (che determina il non appartenere ad un gruppo di pari), dall’altra, se vi sarà un concepimento, lo stesso vissuto (d’invidia) andrà gestito e “sopportato” nel raffronto con le altre donne che non procreano.

L’invidia quindi, nel confronto sociale, è una emozione perennemente attivata.

In pratica: inizialmente devo difendermi dal contatto con gli altri per non fare continuamente i conti con il mio senso di fallimento, poi (se ci riesco) devo fare i conti con l’invidia degli altri nei miei confronti, quindi non posso mai “permettermi” di vivere in pieno la mia emotività.

L'importanza del supporto psicologico nella diagnosi di infertilità

Diventa pertanto fondamentale fornire opportunità di evoluzione e arricchimento alle coppie che sperimentano la sterilità. Occorre considerare che sebbene la crisi della sterilità lasci emergere uno stress emozionale che può avere effetti sulle funzioni biologiche, sull’ equilibrio endocrino e sulle funzioni sessuali tali da creare un circolo vizioso e da contribuire al mantenimento dell’infertilità, al tempo stesso vivere tale esperienza può rappresentare una opportunità di crescita per la coppia (Mahlstedt, 1985) e per gli individui che ne fanno parte. Ciò tuttavia richiede una scesa in campo della propria consapevolezza e della propria responsabilità nella decisione di far tesoro di tale accadimento e nell’esprimere e dar spazio a tutte le sfaccettature emotive che tale mancanza può far emergere.