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I professionisti: una pronuncia sbagliata

MILANO
Una sentenza che lascia allibiti. C'è chi lo dice espressamente e chi lo lascia intendere. Tutti auspicano che si tratti di un caso isolato: «anche perché la legge dice diversamente» e comunque con le regole in vigore dal 2004 il dubbio neanche dovrebbe più porsi. È questo il commento che i rappresentanti dei professionisti del settore fiscale esprimono a proposito dell'ordinanza 23 agosto 2010 n. 18702 della Cassazione (si veda l'articolo in alto).
Il quadro normativo innanzitutto. Roberto Lunelli, vice presidente dell'Anti, afferma: «La deducibilità dei compensi agli amministratori è un principio consolidato sul quale nessuno ha avuto mai dubbi a partire già dal testo unico del 1958. C'era un isolato caso giurisprudenziale peraltro richiamato nell'ordinanza, che negava la deduzione. Ma si trattava di un caso particolare in cui l'amministratore era anche lavoratore dipendente ed era stata esclusa la doppia deduzione». In ogni caso, ricorda Lunelli, già ai tempi dei fatti all'esame dei giudici, anteriori alle modifiche del Dlgs 344 del 2003, le norme che valevano per le società di capitali richiamavano quelle relative alle società di persone, per le quali la deduzione è pacificamente ammessa anche dall'ordinanza. «Di fronte a pronunce di questo tipo restiamo, come tributaristi, sconcertati e allibiti», conclude Lunelli.
Una giurisprudenza troppo attenta alla sostanza e poco al diritto: è così riassumibile il non meno preoccupato commento dei commercialisti. Enrico Zanetti, coordinatore dell'ufficio studi del consiglio nazionale dell'ordine, afferma: «Questa ordinanza conferma un orientamento fortemente sostanzialistico che la Cassazione da circa un quinquennio è venuta assumendo. In pratica si fa prevalere la presunta sostanza economica delle operazioni sottostanti rispetto al dato normativo». La prevalenza della sostanza sulla forma però è un dato proprio della contabilità, non del diritto tributario, osserva Zanetti. E aggiunge: «tra un po' non si potrà parlare più di un diritto tributario ma di un bilancio fiscale». E inoltre aggiunge: «I giudici della Cassazione sono degli eminenti giuristi, ma non sono i soggetti più titolati a riconoscere la sostanza economica delle operazioni, che spesso infatti fraintendono». Il paradosso, conclude, «è che il più sostanzialista dei giudici è diventato quello, la Cassazione, che più di tutti dovrebbe valutare i profili di legittimità e non di sostanza».

Cosa fare adesso? «La sentenza c'è – afferma Pietro Panzetta, del consiglio nazionale dei consulenti del lavoro – e non si può semplicemente ignorare. Si potrebbero determinare situazioni di grave incertezza, soprattutto per le grandi società, per le quali il peso dei compensi degli amministratori è rilevante. Occorre che l'amministrazione finanziaria faccia chiarezza al più presto e permetta alle società di non restare nel dubbio». Il rappresentante dei consulenti del lavoro ricorda peraltro come gli amministratori delle società di capitali sono comunque scelti attraverso un atto collegiale e pertanto non sono assimilabili alla figura dell'imprenditore. «Di eccezione in eccezione, attraverso le sentenze della Cassazione si sta creando una sorta di diritto di eccezionalità e rendendo quello tributario una vera giungla».